Il lavoro di Sergej Loznitsa sul documentario è in primis di ricerca e poi di osservazione, come nel suo capolavoro Austerlitz. Ma Process è una scoperta d’archivio in cui il gesto filmico del regista ucraino sta proprio nel lasciarlo alla visione così puro, senza nessun tipo di azione creativa.

Loznitsa infatti, durante le ricerche per un film, ha trovato le bobine di un processo che il regime di Stalin ha tenuto contro ingegneri e dirigenti di una fabbrica con l’accusa di aver tramato contro lo stato sabotando la fabbrica.

Le immagini erano state montate per un film di propaganda ma il regista ha ricostruito con gli archivi l’intero processo. Ma era tutto completamente inventato, dalle accuse alle confessioni degli accusati. Solo le condanne erano vere.

“La falsità 24 fotogrammi al secondo”, dice Loznitsa parafrasando Godard e quella falsità perfettamente costruita, politicamente strumentale e strumentalizzata per fomentare il popolo, strutturata su una precisa idea di potere è il vero soggetto di un film che mette in mostra spogliandola la macchina di un regime al lavoro, la dittatura in uno dei suoi meccanismi più atroci ovvero la manipolazione del potere giudiziario.

E se il film, nella sua “forma” vecchia di 80 anni, può risultare di difficile digestione è anche perché Loznitsa guarda alla Russia di oggi, all’uso autocratico dei sistemi democratici: si scrive Stalin, si legge Putin.

Il regista Sergei Loznitsa
Il regista Sergei Loznitsa
Il regista Sergei Loznitsa
Il regista Sergei Loznitsa

E se si entra nel ritmo ripetitivo, cerimoniale e sottilmente opprimente di Process ci si scopre poco a poco coinvolti da un paradossale dramma legale e sconvolti dalla trasparenza del suo essere una farsa al servizio dei media dell’epoca, oggi come allora al servizio della conservazione del potere assoluto. “La menzogna è verità”, si diceva all’epoca. Eccone la prova, vostro onore.