Per Pierre niente conta più delle sue mucche. Sveglio all’alba per la mungitura, investe corpo e anima nella fattoria ereditata dai genitori. Non c’è spazio per nient’altro nella sua vita, non c’è tempo nemmeno per l’amore e le avances di un’intraprendente panettiera. Le sole visite che riceve volentieri sono quelle di sua sorella, perché è veterinaria e perché Pierre ha paura. Un’epidemia ha colpito la campagna francese e le autorità impongono agli allevatori una sanzione senza appello: al primo caso di malattia dichiarata, l’intera mandria dovrà essere abbattuta. Quello che doveva arrivare arriva e il giovane allevatore rifiuta la fatalità e spera di contenere il contagio.

Hubert Charuel, figlio di allevatori, firma un primo film entusiasmante su un soggetto che conosce intimamente. Con un’incredibile economia di mezzi, un décor ridotto al minimo, un lavoro sottile di luce e di suono e un pugno di attori che gravitano intorno alla bellezza singolare di Swann Arlaud e alle sue vacche robuste, crea un mondo.

 

Un mondo opprimente dove si vive sotto lo sguardo degli altri, sotto la pressione dei controlli sanitari, delle graduatorie ufficiali, delle difficoltà economiche. Hubert Charuel, partendo dalla paura ossessiva della malattia e da un morboso amore per gli animali, mette a punto un film che flirta col noir, il western e il dramma rurale. Un film che converte la materia documentaria in fiction appassionante, abitata dalla solitudine di un allevatore in lotta contro un male invisibile.

Petit Paysan scarta il naturalismo e punta a metà dell’aia sul thriller esistenziale, anticipato in apertura dalla sequenza onirica in cui Pierre si fa strada dalla camera alla cucina attraverso un pascolare di mucche. La logica del thriller rinvia all’isolamento profondo dell’eroe, solitario e resistente dentro un’atmosfera solare che scivola progressivamente verso una luce artificiale e cruda. Dentro un polar paranoico che seppellisce di notte il cadavere di una mucca e inscena un sacerdozio che volge in inferno.