Il nostro Pirata non è quello che raccontava Vincente Minnelli nel 1948 nell’omonimo musical. Marco Pantani portava l’orecchino, la bandana, gli occhiali, e forse con Gene Kelly aveva in comune il senso del ritmo. Entrambi dovevano andare a tempo, non sbagliare l’entrata, lo scatto, la zampata. Chi sul set, chi sul sellino di una bicicletta. In coreografie senza requie. Pensate alla classica discesa “alla Pantani”, quando il campione assumeva le posizioni più rischiose pur di essere aerodinamico.

Il regista James Erskine racconta la vita del Pirata in Pantani, documentario del 2014 oggi disponibile su Amazon Prime Video. L’approccio è prima di tutto geografico. L’uomo, la montagna, la salita, l’impresa. Il ciclismo viene descritto come un ambiente di lacrime e sangue, lo sport nella sua essenza è l’unica ragione per andare avanti. Ci si stringe il cuore a veder duellare Pantani e Lance Armstrong, forse due dei più grandi di sempre. Il primo è morto in una stanza d’albergo nel 2004 a Rimini, il secondo è stato travolto dallo scandalo del doping, come mostra anche Stephen Frears in The Program.

 

Pantani descrive la fragilità dei giganti. Segue la narrazione del biopic, per poi immergersi nelle accuse di aver fatto uso di sostanze non consentite che hanno distrutto il protagonista. Erskine si schiera, sembra quasi sostenere la teoria del complotto. Ma forse la verità che si legge tra le inquadrature è che nessuno negli anni Novanta era innocente. Così il film si trasforma in un gioco di oscurità e luce. L’ascesa e la caduta, la memoria che accompagna la disperazione, come quella dei genitori di Pantani.

A rubare la scena sono le coppe, la vittoria del Giro d’Italia e del Tour de France nello stesso anno (epocale!), ma ciò che tiene insieme tutta la storia è un profondo sentimento di solitudine. L’atleta che in solitaria sfida gli elementi e punta verso il traguardo, l’abbandono da parte del sistema dopo i test, l’impossibilità di sostenere il peso delle accuse, il silenzio di quella notte a Rimini. Erskine sottolinea la tragicità del successo, il patimento nella disperata ricerca di arrivare primi.

Una volta il leggendario Gianni Mura aveva chiesto a Pantani perché andasse così forte in salita. E Pantani aveva risposto: “Per abbreviare la mia agonia”. In questa frase si nasconde il vero significato del film: la quotidianità è una corsa contro le lancette dell’orologio, col pericolo di schiantarsi a ogni tornante, nella speranza di poter raggiungere un giorno la gloria. Pantani è l’enfasi del talento, la fatica di vivere, il dolore che ti fa pedalare più forte per conquistare la vetta.