Cinque fratelli, tutti maschi, vivono in una casa isolata in un già remoto villaggio del Kazakistan. La dimora è quasi un fortino, limite fisico e mentale che i ragazzi non possono superare se non autorizzati dal severo padre padrone. Una misura estrema che l’uomo mette in atto per preservare i figli dal mondo e le sue tentazione. Operazione che riesce finché i fratelli non scoprono il fiume che scorre non molto lontano e cominciano a sognare di attraversarlo a nuoto per raggiungere una realtà che possono solo intravedere di là dalle acque. Il desiderio di fuga, represso con punizioni anche corporali, diventerà insopprimibile con l’arrivo di un misterioso cugino munito di tablet.

Terzo capitolo di una trilogia detta di Aslan dal nome del fratello più grande,  Ozen / Il fiume proietta lo spettatore in un universo metafisico dove si intrecciano magia e realismo. I cinque ragazzi, così come il padre la madre e il cugino, si muovono come pedine in spazi fortemente simbolici. Se infatti la casa è la protezione, l’esterno il luogo dove sperimentare il gioco, il fiume si proietta come il limite da superare per crescere. Ozen, del resto, è un perfetto romanzo di formazione in cui il piacere della scoperta si interseca inevitabilmente con il dolore della perdita dell’innocenza.

Se la narrazione è astratta, estremamente concrete e curate sono le inquadrature millesimali regalo dell’occhio straordinario di Emir Baigazin. Niente è lasciato al caso a livello di messa in scena, davvero di rara potenza visiva. Aiutata da una fotografia dai toni slavati che rende al meglio i sabbiosi colori  della natura come le personalità in fieri dei protagonisti. Si potrà obiettare un eccesso di formalismo, ma da quando la perfezione è un problema?