Nel mondo della televisione, la terza stagione è spesso un momento cruciale per uno spettacolo: quello in cui una serie può salire a nuove altezze o inciampare nella mediocrità. Stavolta la scrittura chirurgica di Only Murders in the Building (leggi il nostro approfondimento) sembra aver messo da parte il bisturi ed esagerato un po’ col botulino, meno tagliante, più gonfia e tirata, ma nei tratti ancora riconoscibilissima e attraente.

La serie ha attirato l’attenzione del pubblico per la sua miscela di commedia e mistero e soprattutto per la presenza di leggende come Steve Martin (Charles-Haden Savage) e Martin Short (Oliver Putnam), ma lo show non può appoggiarsi solo sul loro carisma. Il problema di fondo di questa stagione è che nessuno sembra interessato all’omicidio e lo spettatore viene lasciato alle troppe numerose distrazioni, proprio come i tre podcaster che divagano tra gli indizi e i loro interessi personali più di quanto indaghino sul caso.

Solo Bloody Mable è determinata a scoprire l’assassino di Ben Glenroy – interpretato da un Paul Rudd in grande spolvero – insopportabile e celebre attore protagonista di Death Ruttle, lo spettacolo che avrebbe dovuto segnare il ritorno alla regia di Oliver. Le luci si spengono e il sipario cala sul musical subito dopo la prima, per rialzarsi sul vano di un ascensore dell’Arconia, ancora una volta teatro del mistero.

I sospetti non mancano, Ben ha fatto di tutto per farsi odiare dai suoi colleghi e collaboratori. Dalla sufficienza verso il suo assistente/fratello, alle pretese da star di Hollywood fino all’ostentazione della sua popolarità come paladino di una serie di film "CoBro", dove interpreta un supereroe in grado di trasformarsi in un grande cobra che aiuta la polizia, Rudd come bello d’annata che non resiste a fare il bello e dannato è impagabile.

Peccato che la detective più risoluta venga più svilita che valorizzata dal rimanere sola sulla scena: è proprio al fianco di Short e Martin che la tenebrosa Selena Gomez emerge e guadagna in vivacità, è quando sono insieme che il suo broncio e il suo sarcasmo rivelano una vis comica e il suo sguardo accigliato si accende in risposta alle stranezze e alle gaffe dei suoi compagni, contribuendo a quello spirito di cameratismo a cui il pubblico si è affezionato. Il suo nuovo partner in crime, l’affascinante documentarista interpretato da Jesse Williams è certo irresistibile, ma non è la miccia che fa brillare il personaggio di Mable.

Per fortuna, l'introduzione di Loretta, impersonata con impeccabile finezza dalla squisita Meryl Streep, risolleva la stagione. Al suo primo ingresso, Streep lancia il suo incantesimo sul pubblico e il suo personaggio è una talentuosa, ma sfortunata attrice avanti con gli anni ancora in attesa della grande occasione. Non si può fare a meno di rimanere affascinati dalla sua calma e dalla sua stravaganza, tanto da sedurre perfino Oliver che finora ci era sembrato innamorato solo di se stesso. È lei l’enigma più intrigante, il personaggio da indovinare, prima ancora che da capire. Streep esplora l'imbarazzo e le idiosincrasie di Loretta con un tocco delicato, la padronanza del linguaggio del corpo e delle espressioni facciali trasmette le complesse emozioni e le stranezze di Loretta. E così ci troviamo a provare simpatia per lei, presi nel suo mistero, in questa fragilità che nasconde una consapevolezza di sé che attrae e allontana.

La capacità di Streep di passare senza sforzo dalla vulnerabilità, all’eccentricità e ambiguità è l’ennesima testimonianza del suo talento oltre che del suo senso dell’umorismo: è ironico che la seconda donna con più premi per la recitazione nella storia degli Oscar (preceduta dalla sola Katharine Hepburn) sia questa Loretta, quest’attrice timida e un po’ stramba, enigmatica e tenace, dalle lunghe trecce e l’appeal new age che per la sua prima vera occasione a Broadway deve ringraziare uno sciagurato come Oliver Putnam. Fa sorridere il pubblico e, ne siamo certi, fa sorridere anche lei.

La terza di Only Murders sembra volersi concedere un’opportunità per dare spazio ai protagonisti per crescere ed evolversi, lo stesso Arconia con i suoi bizzarri residenti e labirintici corridoi, funziona come un personaggio in sé, aggiungendo un ulteriore strato di mistero e fascino alla serie. L’Arconia ricorda un acquario, proprio come quello di Charles, con il suo colorato assortimento di condomini, ognuno con le sue particolarità e i suoi segreti e quegli appartamenti somigliano alle piccole grotte nascoste di un paesaggio artificiale e sottomarino, pieni di indizi che aspettano di essere scoperti.

Il design della produzione merita un applauso per aver creato un mondo ricco e coinvolgente che esalta la narrazione, un merito che va esteso alle musiche, che non solo migliorano l'atmosfera e il tono di ogni episodio, ma sono diventate parte integrante dell'identità della serie.

Un’identità che, non dimentichiamolo, si fonda sull’ironia. Only Murders continua a fare metanarrazione, l'intero spettacolo è una parodia della mania per il true crime e gli autori hanno saputo aggiungere sapientemente sempre più elementi caricaturali, senza storture. E così, al netto di qualche divagazione di troppo e debolezza nella trama, mentre salutiamo l’Upper West Side e i suoi eccentrici residenti, non si può fare a meno di sperare che questa non sia la fine per Only Murders in the Building. Siamo sicuri che l’Arconia ha ancora un sacco di misteri da svelare e risate da condividere, per ora prendete il vostro cappello da detective e, se non lo avete ancora fatto, godetevi le disavventure del trio di true-crime podcasters più brillante di Manhattan.