Un po’ Liala, un tot Casablanca, un filo Wong Kar-wai. Si fa per dire, ma nemmeno troppo: mélo, romanzo di formazione, canto della marginalità, carme erotico, No. 7 Cherry Lane fa di animazione, 3D scalato a 2D amanuense, un mosaico, una giustapposizione di uguali e contrari, spirituale e fisico, bello e brutto, alto e basso, puro e vizioso.

A dirigere il cinese trapiantato a Hong Kong Yonfan, già in giuria al Lido nel 2017, non mancano le suggestioni biografiche, ma il patchwork ha uno sfondo in primis politico: le rivolte del 1967, gli scontri tra governo britannico e comunisti locali – il ventenne Yonfan era lì.

Il protagonista Ziming, studente universitario belloccio, ha quell’età, ed è il vertice alto di un triangolo: la signora Yu, fuggita dal Terrore Bianco di Taiwan, e la figlia Meiling, entrambe belle, la seconda di più. Forse, Ziming partirà con la prima, ma non è detto: l’importante è vivere, l’importante fantasticare, spesso con voltaggio erotico, e il cinema aiuta, la visione in sala catalizza aneliti e desii, vorrei ma non posso, o posso?

In Concorso a Venezia 76, No. 7 Cherry Lane è contraddittorio, il regista parla di “desolazione nello splendore”, e non a sproposito: musiche splendide di Yu Yat-yu, Yonfan, Chapavich Temnitikul, Phasura Chanvitikul, disegno dibattuto tra sveltezza e leziosità, gattini come sui social, svenevolezze e piccinerie, folate perv e licenziose, sentimenti compiti.

Tutto e il contrario di tutto, in mezzo un film suggestivo a tratti, eccitante qui e là, stucchevole per il resto. Non è un divertissement, non un memoir, nemmeno un coming to age a spinta erotica: c’è un domicilio, No. 7 Cherry Lane, manca una residenza. Incompiuto.