Il film di Richard Lowenstein chiude sulle note di Mystify, noto brano del gruppo rock australiano INXS, fondato a Sidney del 1960 e che dà il titolo alla pellicola stessa. Michael Hutchence, leader della band, canta mystify, mystify me: disorienti, mi disorienti.

Così è Hutchence per tutta la sua vita. Disorientato dalle persone, dalle relazioni che si consumano nella ricerca di una definizione, da una famiglia che si sgretola.

Una madre che lo allontana e un fratello che sente di aver abbandonato. Disorientato dall’amore che cerca e vive intensamente ma di cui non comprende il significato. Dal successo che lo divora. E lo duplica in una serie di maschere necessarie a interpretare il Michael sex symbol intoccabile che il pubblico ha idealizzato in eterno feticcio.

Eppure dietro questa caricatura di sé stesso si coglie un’interiorità profonda, travagliata e nascosta sotto strati di sovrastrutture forzate. Che emerge soprattutto attraverso una sensibilità elevatissima, capace di cogliere la minima sfumatura della realtà, la minima variazione di ciò che lo circonda.

Certo, poi la traduzione di questa finezza di spirito lascia sconcertati se è vero che l’edonismo è per lui misura della vita e strumento per comprenderla.

Naturalmente secondo solo alla musica, che come forma d’arte eterea per eccellenza, è quella che più si avvicina all’inafferrabilità dello spirito. Ma è una carica di circuiti emozionali da cui alla fine si lascia sopraffare, incapace forse di incanalare il tornado di sensazioni che lo travolge. La scelta di farla finita nasce da qui. Michael si toglie la vita il 22 novembre 1997 nell’hotel dove alloggiava a Sydney.

Alle note di Mystify si sovrappone man mano uno scroscio di applausi. Le luci si accendono ed è una standing ovation per Lowenstein. E per Hutchence. Volti rigati di lacrime, commozione. Ora è il pubblico ad essere disorientato. Si pensava di assistere a un documentario eppure Mystify è di più.

È una biografia, un dramma d’amore, un trattato filosofico, una poesia di speranza e di disperazione. È di più ancora, perché non solo la storia raccontata è vera, ma sono veri anche i volti e le voci di chi la racconta. I familiari, la sorella Tina, il fratello minore Rhett. Vari amici, colleghi e conoscenti. La sua manager Martha Troup e soprattutto le donne della sua vita. Appaiono le foto e i video condivisi da una giovanissima Kylie Minogue. E anche le lettere d’amore che si scambiava con Michael, i fax che si spedivano.

La sua voce ci rivela il rapporto con la rock star, il suo desiderio di provare di tutto e condividerlo. Proprio per quella spasmodica ansia di percorrere tutte le strade possibili, anche quelle più deleterie. È la modella Helena Christensen a rivelare la modalità in cui Michael ha perso l’olfatto.

Il danno cerebrale responsabile di questa perdita potrebbe essere stato il motivo del cambiamento di attitudine e di umore di Michael nell’ultima parte della sua vita. Il danneggiamento del lobo frontale, infatti, compromette la risoluzione emotiva dei dilemmi emozionali e porta alla depressione.

Non c’è dunque un unico narratore. È la coralità a dettare il ritmo sempre molto sostenuto, ricco di immagini d’archivio inedite, sia della vita del cantante che dei concerti. Mystify non è un documentario su una rockstar e sulla sua band ma un film sull’amore e sulla musica come unico elemento, intreccio problematico eppure autentico, capace di conferire alla vicenda un senso segreto e profondo.

Presentato alla XIV Festa del Cinema di Roma, Mystify-Michael Hutchence verrà prossimamente distribuito in sala da Wanted Cinema.