Si potrebbe comodamente etichettare come “Bollywood for dummies” il nuovo film di Rakeysh Omprakash Mehra, My Dear Prime Minister, eppure è un film che risulta di un certo interesse, anche forse indipendentemente da volontà e capacità del suo autore.

Il protagonista è un bambino che vive negli slum di Mumbay, dove nessuno ha un bagno in casa e i bisogni si fanno all’aria aperta, magari come rito di gruppo. Quando però la mamma del piccolo viene violentata durante l’espletazione di un bisogno, l’obiettivo del ragazzino sarà di costruire una toilette privata, anche a costo di dover parlare col primo ministro.

Sembra una di quelle storie vere da cui sono tratti molti film asiatici, ma quella scritta dal regista con Hussain Dalal e Manoj Mairta è invece una commedia commovente, schiettamente popolare che al di là dei suoi limiti lavora in modo curioso e intrigante sul rimosso della società e della cultura indiane.

Tutto ruota infatti al bagno pubblico e all’atto della defecazione come elemento di coesione sociale per le donne dello slum e anche di protezione, di comunità, se è vero come recitano le didascalie che circa la metà degli stupri avviene a causa della mancanza di bagni pubblici o privati negli slum.

E allora My Dear Prime Minister usa l’osceno (ossia ciò che viene lasciato fuori dalla scena), in questo caso le deiezioni, per parlare di un’oscenità molto più pesante nel contesto indiano, ovvero la cultura dello stupro che lo permea, di cui quasi tutti i maschi sono imbevuti e che incarnano spesso inconsciamente (per esempio: come ci si può difendere da quella cultura se la praticano le istituzioni?).

Mehra fa questa riflessione attraverso un genere anch’esso rimosso dall’attenzione della critica e del discorso cinematografico ma importante per il pubblico ovvero il film per bambini o ragazzi, trovando quindi un target perfetto per cambiare il modo di affrontare le questioni.

Questo porta il film a spingersi in territori apparentemente più superficiali, a sposare modalità di racconto più facili e accattivanti, a spingere il pedale su uno stile sempliciotto e globalizzato - ma privo del paternalismo di certi esperimenti europei realizzati in India - tra canzoni, amori e lacrime.

Eppure nel suo piccolo, My Dear Prime Minister prova a mettere in crisi la cultura dominante che racconta, a svelarne l’abiezione, riportando le omissioni più o meno gravi al centro della scena dalle quali si può generare il rinnovamento: i piccioni che all’inizio si trovano sulla statua di Gandhi, lasciano su di essa degli escrementi che nell’ultima inquadratura diventano fiori.