Non brilla per originalità, la bella e fiera Ana Asensio, che si dirige nell’opera prima Most Beautiful Island, ma c’è una compattezza, una solidità, una serietà, che non viene meno nonostante le ripetute idiozie, apprezzabile.

Siamo dalle parti di 13 – Tzameti e di Hostel, ci sono poveri alla ludica e sadica mercé dei ricchi, e c’è la 40enne Asensio, madrilena trapiantata a New York, che si mette dietro e davanti la macchina da presa memore della lezione cassavetiana, degli Anni 70 stelle e strisce in Super 16mm, e così gira, facendosi tallonare nella Grande Mela da una camera mobilissima, insistente, dedicata.

 

Problema, ma la falsa soggettiva a lungo e largo andare non falsa un po’ le cose? Chissà, lei ci crede e noi - faticosamente – ci crediamo: certo, la miseria qui e ora e un lutto – la perdita del figlio, si intende – fresco giustificano la scelta illogica e pericolosa oltre ogni allarme di sprofondare in una botola a Chinatown per un non meglio precisato party da duemila dollari di compenso?

La sua Luciana nemmeno ci deve pensare, accetta la proposta della, ehm, amica Olga (Natasha Romanova), indossa un tubino nero – ogni riferimento a nostrane cene eleganti è ovviamente casuale – e trova atmosfere sotterranee tra Polanski e prosaico Eyes Wide Shut: il voltaggio è thriller, la suspense al tavolo, il contatto fisico delegato, l’immaginazione, purtroppo, non a briglia sciolta.

C’è, però, il senso di Ana per il low budget, il radicamento al genere e, precipitato di eventi e apparentamenti autobiografici, l’emancipazione femminile. Nulla per cui spellarsi le mani dagli applausi, ma l’assertività paga, anche più di duemila dollari.

Caso strano, le cose migliori stanno ai margini, dalle blatte che precipitano nella vasca da bagno ai bambini-mostri che Luciana deve accudire: due ricorrenze da horror della povertà, giacché non è un’isola bella né felice. Il Gran Premio della Giuria al SXSW (South by Southwest) Film Festival 2017 ci sta.