Dopo dodici anni di assenza, la Romania torna in una sezione competitiva, Orizzonti, alla Mostra di Venezia con Miracle di Bogdan George Apetri, che prosegue la trilogia avviata con Unidentified l’anno scorso.

Con più di qualche assonanza formale, tematica, ideologica e perfino “conventuale” con la new wave che fu di Mungiu, Porumboiu e Puiu, Apetri fa professione di realismo, presta la camera a una detection sociologica, di più, antropologica, ma poi vira verso la spiritualità, tenendo fede al titolo che s’è scelto, per di più con una licenza poetico-stilistica che se ne frega brutalmente della sintassi cinematografica – e del patto implicito con lo spettatore.

Dittico senza soluzione di continuità, segue la bella e giovane novizia Cristina (Ioana Bigarin) allorché lamentando dolorose emicranie esce di convento alla volta dell’ospedale: la questione si complica, le telefonate che compie non sono risolutive, sicché la sera prende la via del ritorno trovando un destino crudele. Il secondo capitolo tallona il detective Marius (Emanuel Parvu) che indaga sul caso Cristina ripercorrendone la genesi sin dal convento: la ricerca della verità è senza scrupoli, soggettiva più che geometrica, laica già, ma fino a che punto?

Ben scritto e parimenti recitato, Miracle procede con i piedi ben piantati per terra, dialettizza sull’aporia della religione, salvo partire per la tangente trascendentale: la tensione è bressoniana, la prosa no.