Meseta prosegue e rinforza la progressiva tendenza documentarista dei film in concorso a Pesaro Film Festival. Anzi, è il più marcatamente documentario di tutti, l’unico che non ibridi la propria natura con gli strumenti della fiction.

Questo è, di partenza, un bene per l’opera, che si svincola dalle necessità strutturali della finzione. La sua narrazione è fatta di enormi parole a forma di immagini e piccoli dialoghi a mo’ di post-it su quella tela mastodontica che è l’entroterra spagnolo. Il titolo internazionale è Inland, per l’appunto, “entroterra”.

Il giovane regista Juan Palacios si muove il meno possibile, con la camera, e al contempo cerca di inquadrare il più possibile, in senso spaziale ma anche concettuale. L’oggetto da rappresentare è una regione sconfinata eppure quasi deserta, abbandonata, percorsa dal costante rumore di uccelli e insetti.

I passi dei pastori, lo sfrecciare di un’auto, una chiamata alla radio, sono tutte cose che saltano subito all’orecchio, abituato alla “quiete” della natura. Ogni (rara) azione dell’Uomo è tanto quotidiana da essere universale, simbolo di uno stile di vita invisibile quanto intuibile. In Meseta non accade niente che non sia già accaduto infinite volte e che non si ripeterà per altrettante.

Ma è sufficiente, tutto ciò, a creare un discorso ad effetto? La grammatica è in ordine, ma quanto è potente il messaggio del film? Dispiace constatare che la bellezza di certe immagini e l’ironia vulcanica (dei due “musicisti”) o sotterranea (delle due sorelle) di certi frangenti non bastino a consacrare 90’ minuti che ambiscono a insegnare tantissimo, dicendo quasi nulla. Beninteso, ci riescono, ma appassionando meno di quel che potrebbero.

Se da una parte è vero che abiurare la fiction ti emancipa da certe responsabilità, dall’altra aderire al genere documentario te ne impone delle altre, non necessariamente più gentili. Resta uno sguardo di passaggio su una terra impressionante, per estetica, grandezza e poesia. Ma resta anche la voglia di fermarsi da qualche parte, per rendere quella poesia un po’ meno ermetica.