Nel 2008, quel che era nell'aria da tempo - la crisi economica internazionale tuttora in corso - esplose apparentemente da un giorno all'altro nel suo epicentro, gli uffici delle banche di investimento di Wall Street. E di colpo fu sotto gli occhi di tutti. È la premessa alla base di Margin Call, opera prima di J.C. Chandor che ne firma anche la sceneggiatura, meritoriamente candidata agli ultimi Oscar. Il dramma collettivo, astratto, diventa individuale e plausibile: la notte in cui il terreno crolla sotto ai piedi di chi muove consapevolmente l'economia mondiale, creando fittizi mondi di benessere destinati ciclicamente a crollare. Non si salva nessuno: se il dio denaro fa gola a tutti, l'unico spiraglio di umanità che si può trovare è il rimorso, una consapevolezza tardiva e colpevole, perché figlia di un tracollo che colpisce in prima persona per la prima volta, col licenziamento in tronco.
Chandor non è Mamet, ma i dialoghi sono brillanti, i personaggi restano impressi e la struttura è ariosa, al servizio di un falso thriller dove la lotta contro il tempo per salvare l'azienda dalla bancarotta è un pretesto per un amaro sguardo d'insieme. Non è facile star dietro alle spiegazioni sulle dinamiche della borsa, ma il cast in stato di grazia (con Jeremy Irons provvisto di licenza di eccedere) porta per mano lo spettatore. Manca forse un vero protagonista, in un film corale che accumula volti e personaggi memorabili senza portarli alle estreme conseguenze, con un finale su misura per Kevin Spacey forse troppo buonista. Tra Spacey, Irons, Demi Moore, Stanley Tucci (immenso) e Paul Bettany chi produce è Zachary Quinto, il Sylar di Heroes qui timido analista, forse troppo (e costretto in un cast stellare) per ritagliarsi il ruolo da main character che gli spetterebbe. Ma il suo personaggio è agghiacciante: la realtà dei fatti viene intuita da un impiegato, mentre manager e massimi sistemi sono totalmente incapaci di capire cifre e numeri su cui hanno vissuto ai danni altrui.