La sinossi è efficace, intriga: “Una bambina ama sua madre, ma sua madre ama Marcel, il suo cane”. Magari c’è un eccesso di “sua/o”, ma è una spia: l’esordio al lungometraggio di Jasmine Trinca, dopo il corto BMM – Being My Mom del 2020, è eminentemente, coraggiosamente e dolorosamente autobiografico. Sì, è suo, Marcel!, di Jasmine. Capiamoci, non è chiuso né solipsistico, dialoga con il sentire, e soffrire, comune, dialoga, nel viaggio di madre e figlia, col bagaglio archetipico delle fiabe, ovvero della venuta e della formazione al mondo di ciascuno di noi.

“All’arte si deve la vita”, vuole la madre (Alba Rohrwacher), ma comprenderemo alla fine del percorso lotmaniano e proppiano che compie con la figlia che l’arte si deve alla morte, ed è il precipitato più scoperto, esposto e lancinante che la pudicizia incantata di Trinca si riservi.

Prodotto da Cinemaundici e Totem Atelier con Rai Cinema, in anteprima a Cannes 75. nella sezione Séances spéciales, ha nella figlia Maayane Conti una bella scoperta, e un cast di contorno di riguardo: Giovanna Ralli, Umberto Orsini, Dario Cantarelli, Valentina Cervi, Valeria Golino e Giuseppe Cederna.

Si respira arte, El Lissitzky per la locandina e Luzzati; letteratura, Calvino, Rodari; cinema, da Tati a Gianni Di Gregorio, da Varda a Citti. Ma il cuore è della regista e sceneggiatrice, con Francesca Manieri, che tra sogno e realtà ibrida Neorealismo e fiaba, oltre ogni (auto)censura: “Panni sporchi che non si lavano in casa ma che diventano bandiere da sventolare, inni programmatici: ‘All’arte si deve la vita’”.

E nel mezzo del cammin, di nostra vita e nostra morte, c’è una selva oscura da illuminare, il destino vagabondo di artisti, e non performer, di strada, l’erranza di cinghiali sacri in India e sacrificabili qui, un caravanserraglio ridotto, e intenerito, a passo a due, un po’ disadattato e molto marginale.

Gli ultimi saranno ultimi, ma non nel ricordo, nella messa in scena che è (ri)messa in vita, né assoluzione né dissoluzione, come la memoria quando fa il suo: Trinca ci prende per mano e ci fa accompagnare dai genitori che non sono più in quello che hanno lasciato, e lei in primis.

Non c’è deficit di accudimento nell’abbandono, c’è presenza in quell’assenza, e il cinema a suturare e riaprire ferite: toujours Marcel, il cane che c’era, non c’è più e ci sarà ancora. Simulacro, ma anche sineddoche, d’amore, che Trinca porta a cremare e al mare: un abbaio ci seppellirà.

Marcel! ha la sfrontatezza gentile, l’assertività empatica e la compromissione poetica della sua regista, non si nasconde dietro una maturità di facciata, al netto dei contributi – ottimi – di fotografia (Daria D’Antonio), musiche (Matti Bye) e scenografia (Ilaria Sadun), bensì si esibisce tra Roma e dintorni cercando la verità prima della bellezza, il nervo scoperto anziché la posa. Ma di bellezza, ce n’è: il nonno in ciabatte e calze bianche al tavolo, gli aquiloni in spiaggia, la figlia che dorme con le gambe accavallate e, su tutti, le  monetine gettate, anzi, scagliate a terra per ricompensare sprezzantemente lo spettacolo di madre e figlia.

Non assomiglia al cinema che ha interpretato, Marcel!, ed è una buona notizia: non a detrimento di quei titoli, ma a beneficio di Jasmine Trinca, novella regista. È difficile dormire la notte, dice la madre, ma ancor più sognare di giorno: lei, figlia, l’ha fatto. Sulla soglia dell’incubo.