Alla tv Nicolas Cage e sua moglie Andrea Riseborough guardano film di serie Z e orrende pubblicità, lei legge libracci di orrore e magia e ascoltano musica che parla di demoni e affini: l’estetica deteriore in Mandy, il secondo film di Panos Cosmatos a 8 anni da Beyond the Black Rainbow, è però un mero alibi per un film che vorrebbe mettere il piede anche nella staffa del cinema arty.

Cage e la moglie vivono in un bosco sperduto, in quegli anni ’80 che ormai sono ovunque soprattutto se si tratta di cinema di genere, in tranquillità finché non arrivano dei fanatici religiosi che distruggono le loro vite. E la vendetta sarà, ovviamente, brutale.

Cosmatos (figlio del George Pan regista di Cassandra Crossing e Rambo 2) scrive con Aaron Stewart-Ahn un horror tipico in cui però il modo di racconto e soprattutto di messinscena diventano la vera essenza del progetto.

Colori sempre estremi e saturi che invadono ogni angolo di ogni fotogramma, riflessi, ralenti e tutti i possibili trucchi ottici creati dalla nascita della pellicola a oggi mescolati a una sempre crescente goliardia che tra umorismo più o meno volontario diventa un baraccone in cui si cerca di copiare - tra i molti - la trilogia Evil Dead di Raimi (e qui la pellicola offre qualche sprazzo di interesse).

Ma questa estenuante ricerca estetica di Cosmatos non serve a nulla se non a costruire una cortina di fumo attorno alla sua incapacità di comunicare, di intessere atmosfere e tensione, di gestire un ritmo seriosissimo, pensoso e catatonico.

 

L’ipocrisia insita in Mandy - che si permette anche di rendere insopportabile l’ultima colonna sonora di Jóhan Jóhansson - è che mentre strizza l’occhio agli amanti del trash, i quali gongolano per accette d’argento tirate in testa e per Cage al suo peggio che fa gli occhiacci, spezza colli e dice battute à la Cobra (film diretto da Cosmatos sr., appunto), si ostina per tutte le due ore di durata a credersi un film raffinato, una delle nuove vette possibili della psichedelia, il nuovo Jodorowski per intenderci. Mentre al massimo è il catalogo di un interior designer sotto acido.