Da Tutto su mia madre alle Mie madri su tutto. Pedro Almodóvar apre la 78esima Mostra di Venezia con Madres paralelas, in Concorso, (r)innovando la sostanza maternale del suo cinema: gravidanze, morti in culla, stupri, identità e passioni, tutto in un passo a due nato in sala parto e destinato a triangolare con un’altra maternità e, sopra tutto, l’amore e la Storia.

Entrambe single e al termine di una gravidanza inattesa, in ospedale si ritrovano la matura Janis (Penélope Cruz) e l’adolescente Ana (Milena Smit): la prima gioiosa, la seconda spaventata, in corsia non si scambieranno solo parole, ma il destino, complicando le proprie vite e al contempo guadagnando la libertà.

Ben interpretato da Cruz e la rivelazione Smit, Madres paralelas riporta al Lido Almodóvar dopo il Leone d’Oro alla carriera del 2019 e il corto The Human Voice del 2020, confermando la cura visiva del nostro e ancor più le costanti, perfino ossessioni, poetiche, a partire dall’attenzione per il femminile. Centrale è il tema della memoria installato nella storia spagnola: il bisnonno di Janis venne trucidato dai falangisti nella guerra civile, il film chiude sulla riesumazione di quella e altre salme da una fossa comune. È l’aspetto più interessante, questo recupero memoriale e sostanziale, e lo è nell’intreccio di storie e Storia, antenati e discendenti: riguarda il titolo stesso, perché le madri non sono parallele solo orizzontalmente, ma verticalmente, nel succedersi delle generazioni.

Meno interessante, viceversa, è la relazione orizzontale tra Janis e Ana che peraltro mossa da un espediente vecchio come il mondo e in uso a tanto cinema recente non brilla in empatia, si consegna a spiegazioni verbose, in breve, non riesce ad appassionarci, perché geometrica, programmatica, calcolata.

Sebbene Pedro le intenda “imperfette”, queste madri – dobbiamo aggiungere quella refrattaria di Ana incarnata da Aitana Sánchez-Gijón, sono invero schematiche, esibite e “a tesi”, giacché hanno la missione di manifestare al pubblico un tot di questioni sensibili, dalla cultura dello stupro (e dal mancato ricorso alla giustizia) al femminismo (vedi maglietta indossata da Janis) passando per la famiglia a geometrie variabili, con toni apodittici e asseverativi.

Insomma, lo spettro del diorama è altrettanto sensibile, e la Storia finisce per cannibalizzare le storie: senza rimpianti, invero.