Non era facile raccontare l'immonda carneficina di Marzabotto senza scivolare nel sentimentalismo e nella retorica, nel manicheismo e nell'effetto. Giorgio Diritti vi è riuscito realizzando con L'uomo che verrà un'opera densa, profondamente morale, di cordoglio e insieme di testimonianza, commovente senza mai essere ricattatoria. Un corpo estraneo non solo in questo concorso romano - al pari di Up in the Air e di pochissimi altri - ma nel modesto panorama italiano (incredibile che Venezia non l'abbia voluto in gara), da cui si differenzia per il coraggio nelle proprie scelte e per la fiducia nel cinema. Armato ancora di digitale - che la bella fotografia di Cimatti trasforma in "pellicola" - il regista bolognese si accosta con pudore - quasi con distacco - a una famiglia di contadini che vive alle pendici di Monte Sole (una frazione di Marzabotto), pedinandone i giorni e gli stati d'animo, la quotidianeità in tempo di guerra. Il film inizia nell'inverno del 1943. L'Italia è spaccata in due. Sud con gli alleati, Centro-Nord sotto i tedeschi. Le campagne emiliane sono terra di nessuno, tra incursioni SS e scorribande partigiane. I contadini continuano la loro vita fuori dal tempo e soggetta alla Storia, ai suoi capricci. La prima parte de L'uomo che verrà è pura lezione olmiana, un Albero degli zoccoli in tempo di guerra. Una pagina di antroplogia rurale e di naturalismo cinematografico, spezzata dalla poesia e dalle "visioni" di una bambina di otto anni - alla quale il film affida progressivamente il punto di vista - sbigottita di fronte alle vigliaccate degli uomini, i piccoli orrori (ed è un accenno premonitore l'incontro con un pedofilo, maschera dell'abisso umano), l'incanto delle stagioni (bella la sequenza con le lucciole d'estate), il miracolo di una vita che cresce nella pancia della madre, un fratello in attesa e un altro che muore ammazzato chissà come, da chi e perché. Diritti ci lega alla bambina a doppia mandata: la sua è l'innocenza della terra, estranea alle guerre degli uomini; ma è anche l'ingenuita delle nuove generazioni, digiuni di storia e di sofferenze: il pubblico. L'uso dei campi lunghi in questa lunga parte introduttiva è correlato al grado di consapevolezza, nostro e dei protagonisti: più si avvicina la tragedia, più si restringe il campo (fino ai primi piani), e meno riusciamo a vedere, a capire l'orrore. Operazione linguistica e sinestetica: la bambina perde la voce, il padre le parole, l'orrore non si può dire né ascoltare. La nascita del bambino coincide con la morte dell'umanità: simbolica - quella dei tedeschi - e reale - i 770 abitanti di Monte Sole mandati a morte dai nazisti. La narrazione si fa convulsa, crudele ma non cruda. Diritti satura il quadro ma lascia sangue e oltraggio fuoricampo, non perde mai il controllo, supportato dai suoi bravi attori (tra la Rohrwacher e la Sansa la reginetta è però la bambina, Greta Zuccheri Montanari). E non smarrisce la bussola morale: il male non è il frutto di un'astratta corruzione dell'uomo ma delle responsabilità di ogni cultura: "Siamo la nostra educazione", ribatte un ufficiale tedesco a un prete. Ed è qui l'unico forte ammonimento politico di un film che si sottrae per altri versi a ogni misera querelle nostrana. L'uomo che verra è il figlio di ogni paese, dell'Italia di allora e di oggi, di destra e di sinistra, in o senza guerra.