“Almeno voleva sapere perché al mondo ci doveva essere della gente che se la gode senza far nulla, e nasce colla fortuna nei capelli, e degli altri che non hanno niente, e tirano la carretta coi denti per tutta la vita?”.

Tornano in mente i verghiani Malavoglia con l’opera terza dell’iraniano regista e sceneggiatore classe 1989 Saeed Roustaee, esordiente nel 2016 con Life and a Day, poi rivelato a Venezia 2019 con Just 6.5, sulla lotta al narcotraffico in Iran: Leila's Brothers è in Concorso a Cannes 75.

Dramma familiare con risvolti economici, ovvero l’arricchimento e la sopravvivenza in un Paese logorato dalle sanzioni internazionali, segue Leila (Taraneh Alidoosti) che prova a risollevare le sorti di padre, madre e i suoi quattro fratelli avviando un’impresa, ossia prendendo un negozio dove lavorare tutti insieme: le intenzioni si scontrano con la volontà del padre di donare i propri, ehm, risparmi al potente di turno, onde diventare il patriarca della comunità, il più alto onore della tradizione persiana. L’implosione del nucleo familiare è dietro l’angolo: che fare?

Il trentaduenne Roustaee torna per certi versi all’esordio, giacché Life and a Day si dibatteva nel vuoto familiare lasciato dalla partenza della figlia più giovane, e si concentra non solo su legami di sangue e relazioni affettive, non solo sulle strette economiche, bensì sul ruolo del patriarcato nel Paese persiano.

Secondo lungometraggio a rappresentare l’Iran in competizione sulla Croisette dopo il thriller di Ali Abbasi Holy Spider, e occhio alla presenza in giuria del due volte premio Oscar Asghar Farhadi, ha un andamento fluviale, due ore e quarantacinque minuti, con ampio spazio per le secche, ovvero le involuzioni e iterazioni di sceneggiatura: si poteva sfrondare, almeno, di 45’ senza stracciarsi le vesti.

Ma la durata monstre ha anche ricadute qualitative, perché è spia scoperta di una poetica pedissequa, di un affastellamento e accumulo narrativo che toglie brio, che soffoca interesse, che smorza l’assunto: è tutto, troppo verbalizzato, spiegato, rispiegato e riverbalizzato, è tutto chiaro, evidente, lapalissiano, nel fuoricampo non c’è nulla, tranne il nostro scontento. L’evocazione, l’ambiguità, il sottinteso, la tarsfigurazione, nemmeno a parlarne.

Peccato, perché la tosta Alidoosti, Saeed Poursamimi che incarna il padre decrepito ma non domo e sempre folletto, Navid Mohammadzadeh che interpreta il fratello codardo ma non sciocco Alireza sono bravi attori, e le disgrazie familiari si innestano e riverberano bene in quelle di sistema, però è una messa cantata che rischia di fare pochi, pochissimi proseliti tra gli spettatori: sì, più familiari che pubblico.