“L’uomo mortale, non ha che questo d’immortale. Il ricordo che porta e il ricordo che lascia”. Pupi Avati portando sullo schermo il memoir di Giuseppe Sgarbi prende da un’altra penna, quella di Cesare Pavese, e ne sugge l’inchiostro, ne riverbera il lascito: Pavese si diede la morte, Avati si dà l’amore, ché la coincidenza di eros e thanatos non è mai peregrina.

Troviamo in Lei mi parla ancora, titolo da ghost story, appiglio da feuilleton e voltaggio rivoluzionario, il cinema di Avati, ovvero – sta per fare un film su Dante - l'amor che move il sole e l'altre stelle, la memoria: riesce prendendo dal papà di Elisabetta e Vittorio a dire di sé, anzi, a dire se stesso. Solo un’identità forte non teme l’alterità, viceversa, ne trae beneficio: giacché io è un altro, questo è Pupi elevato a potenza, nel potere evocativo, nell’affondo intimo, nella coniugazione universale.

È un viaggio al termine della vita in cui la persistenza, ancora, e la comunicazione, mi parla, trovano il dai e vai testimoniale di Pavese, ma anche l’apertura all’ultraterreno, alla tracimazione della possibilità: può l’amore essere immortale e, ancora, può l’immortalità essere amorosa?

Nella Bassa che padroneggia, giacché ne è consustanziato, come nessun altro, Pupi ritrova i fantasmi, dunque, l’orrore di essere lasciati soli in presenza, e s’ingegna: fantasmatico è lo scrittore, il ghost writer chiamato a rivelare senza apparire. Per Sgarbi fu Giuseppe Cesaro, per Avati è Fabrizio Gifuni, ovvero Amicangelo, scrittore che accetta l’incarico per soldi e per vedersi pubblicato, dalla Sgarbi, il romanzo suo: è speculare a Pavese, a lui il ricordo viene portato, a lui il ricordo verrà lasciato.

C’è un’osmosi, tra Amicangelo e Nino, ovvero Giuseppe, che non si sarebbe detta: così lontani così diversi, uno separato, l’altro innamorato irriducibile nella vedovanza, trovano nella condivisione del ricordo una terra di mezzo da diserbare dalla diacronia spiccia e dissodare a nuova vita. Per entrambi: chi muore e chi, forse, cambia. La meta è il passaggio, non di consegne, ma esperienze, e non sarebbe così formidabile, così umanamente comprensibile e sentimentalmente godibile, se Nino fosse altri da Renato Pozzetto, che ha ottant’anni, è stato Renato Pozzetto e qui si (ri)scopre grande attore, interprete ispirato, accordato, profondo.

È il lui che deve mantenere fede al titolo, sebbene i flashback – chiamiamoli così, ma non lo sono – in cui è interpretato da Lino Musella, con l’amata Isabella Ragonese, dovrebbero aiutarlo: ebbene, Pozzetto ci crede e ci fa credere, che il cinema possa elaborare il lutto senza morire. È in fondo, Andrè Bazin ci perdoni, il miracolo dell’osceno che mette in scena Avati, una petite mort in cui demenza senile e immortalità giovanile si abbeverano alla stessa inesauribile fonte amorosa.

La scrittura del memoir non è occasionale, ma sostanziale: è anche un film sul cinema, giacché Avati fa selezione e combinazione, dunque, linguaggio; con Nino e Amicangelo fa di frammenti discorso amoroso; divelle la consecutio temporum e associa la vita di Nino e quella sognata, comunque recepita, dagli angeli, pardon, da Amicangelo. Bene Stefania Sandrelli che è l’amata Caterina che muore, bene Nicola Nocella e Alessandro Haber, benissimo Chiara Caselli, che è la Figlia, Elisabetta, Avati non ha che questo d’immortale, il cinema fatto bene, dedito e devoto al ricordo, alla sconfinata giovinezza, al cuore, altrove e grande delle ragazze e, anche dei ragazzi: in lui e per lui la famiglia non è formato, ma forma, il congedo non dalla ma in vita, il ricordo non persistenza ma esistenza piena, la residenza di faglia, tra chi non è più ed è ancora, comunque è.

Forse Serena Grandi, la madre di Nino, non è il massimo, forse Gifuni carbura lento per il fardello di differenze pletoriche, forse questo cinéma de papa ha rughe d’espressione, ma importa nulla: il cinema che porta e il cinema che lascia, Pupi Avati, quello importa. Si è grati, a lui, a Pozzetto, agli Sgarbi, per il cuore rivelatore tra statue, busti, Guercini e album di famiglia. Perché quella di Ro Ferrarese è la possibilità non di un’isola, ma di arcipelago: ci parlano ancora, loro. Con un lessico familiare, e una sintassi universale.