Anche i ricchi piangono, recitava una telenovela messicana di fine anni ’70. In Las niñas bien, i ricchi non piangono direttamente ma Alejandra Marquez Abella sembra volerne raccontare il disagio interiore in un momento simbolico di crisi, quando quella ricchezza si apprestava a svanire.

Il momento che racconta il film però non era del tutto simbolico, anzi: ovvero la crisi del peso messicano nei confronti del dollaro. Una crisi che porta una famiglia benestante a dover ripensare la propria vita, o forse a negare gli eventi nella speranza di non farsi notare da amici, parenti e vicini. Il romanzo di Guadalupe Loaeza serve alla regista per intessere una commedia tra satira e simbolismo in cui l’acutezza dello sguardo sembra scontrarsi con le scelte narrative.

Perché la scelta di Abella è proprio quella di non raccontare una storia e solo in parte dei personaggi, ma raccontare gli ambienti e gli oggetti che definiscono quei personaggi, i rituali sociali che li tengono vivi e lontani dalla vacuità del loro mondo, lo scarto sempre più ampio tra le loro parole, i loro gesti e la loro situazione socio-economica. Un puzzle di dettagli che come un quadro puntinista, a distanza, dovrebbe dare l’idea di un ritratto o meglio di un affresco.

Las niñas bien usa le tecniche dello spiazzamento, con elementi incongrui che irrompono nella perfezione dell’inquadratura e del décor, con musiche e toni narrativi ora bizzarri ora più compressi ma mai esplosi, con immagini e accenti che sembrano fuori posto e che invece concorrono alla realizzazione di un film che sceglie la via dell’inclassificabilità, della sospensione, della dispersione, come se non volesse mai essere dove e come lo si aspetta, che rifiuta le norme.

Coraggioso, quindi, con la messinscena e lo stile che si dichiarano come atti a loro modo politici: ma che per proprio per questo eccesso di pensiero rischiano di ritorcersi contro. Per esempio, mancando l’appuntamento con il pubblico.