Due donne in fuga. Dal mondo, ma soprattutto da se stesse. Una ha un doppio cognome, l’altra no, eppure condividono la stessa sorte: Villa Biondi, Toscana, una comunità terapeutica per donne con disturbi mentali. La prima si chiama Beatrice Morandini Valdirana (Valeria Bruni Tedeschi), è seducente quanto sedicente, parla di focosa passione con tale Renato, un (ex) marito intimo con i potenti, e intima pure lei, che ha i numeri di Letta, Malagò, Odescalchi, Clooney e altro bel (?) mondo. L’altra è Donatella Morelli (Micaela Ramazzotti), capello corto, tatuaggi, reminiscenze da tossica e un passato ancor più torbido, ma non si sa quanto, non si sa che. Si piacciono, si trovano, decidono di riprendersi la propria vita, o almeno quel che è loro: un bambino, per esempio. Nel percorso, nella fuga à la Thelma & Louise, proveranno l’ebbrezza della ritrovata libertà o, meglio, di una seconda possibilità. Nel percorso, proveranno la pazza gioia, quella che dà il titolo al nuovo film di Paolo Virzì, scritto con Francesca Archibugi, in cartellone alla Quinzaine di Cannes 2016.

Nel cast, di livello, anche Valentina Carnelutti, Anna Galiena, Marco Messeri, Tommaso Ragno e Marisa Borini (madre di Valeria Bruni Tedeschi, nel ruolo della madre di Beatrice), è un downgrade da Il capitale umano (2014), per scala e prospettiva, eppure si sbaglierebbe a considerarlo “un Virzì minore”: nella storia di Beatrice e Donatella troviamo, oltre al buon cinema che la racconta, spunti di riflessione su temi sensibili eppure trascurati, quale l’igiene mentale (chiusura degli OPG – ospedali psichiatrici giudiziari - annessa, nonché la sottile linea rossa tra follia e normalità) e il disagio psichico, il sessismo, il senso di comunità, le differenze di classe, la tutela dei minori.

Tutti, appunto, addossati e incarnati dalla coppia in fuga dal manicomio Italia: Valeria Bruni Tedeschi è splendida, divertita e divertente, dà a Beatrice un tocco di gran classe e il sapore della verità; Micaela Ramazzotti, in un ruolo di chiusura e sottrazione, se la cava bene, grazie a un giusto compasso emotivo ed empatico. Sono loro la cosa migliore di un film discreto, che avrebbe potuto agevolmente esser qualcosa di più senza due gravi errori di sceneggiatura – il sottofinale di Donatella e, prima, l’incontro, ehm, tra Beatrice e l’ex marito – che attengono, in realtà, a un problema di fondo, ovvero l’abituale commistione tra dramma e commedia del cinema di Virzì. Che pure, va ricordato, è forse l'unico erede della gloriosa commedia all'italiana.

Se il secondo errore di scrittura è di mera verosimiglianza (un incastro troppo perfetto), il primo, protagonista Beatrice, scomoda la farsa, gettando qualche ombra fastidiosa sulla credibilità complessiva della storia. Più radicalità e più "serietà" non avrebbero guastato, anzi, e nulla avrebbero tolto a questa pazza gioia. Nota di merito per la colonna sonora di Carlo Virzì, che avviluppa la sublime Senza fine di Gino Paoli, un film, comunque, di gusto e sostanza.