Meno cantato, ma più musicale. Meno sorprendente, ma più spirituale, più vicino a una certa tradizione iconografia: Jeanne, seconda parte del dittico di Bruno Dumont dedicato a Giovanna D’Arco dopo Jeannette, è il film più vicino all’epica che il regista potesse mai partorire.

Racconta della giovane Jeanne ormai a capo della milizia francese contro gli inglesi: il re e la Chiesa sembrano fidarsi della voce divina che gli dà gli ordini militari, fin quando non subisce la prima sconfitta e il sovrano comincia a volere una tregua con i nemici. Dumont, anche sceneggiatore cambia le carte in tavola rispetto al primo film: relega le canzoni al ruolo della parola di Dio, cambia i suoni dal black metal a un’elettronica corretta con archi più classici (score firmato da Cristophe), la follia del primo diventa un’estrema stilizzazione teatrale, più vicina a maestri che già trattarono l’argomento come Bresson e Rivette, con in più la vena ironica che Dumont coltiva da P’tit Quinquin.

Da quella serie viene il lavoro su facce e presenze anti-cinematografiche, sgraziate e stonate che rimanda a Straub e Huillet e che aumentano il distacco tra il film e lo spettatore, ma Dumont lavora per colmare quel distacco, seppure in modo paradossale: se in Jeannette erano le canzoni e la sorpresa di un modo originale di narrare la pulzella d’Orléans, qui cerca di ritrovarne la spiritualità, di approfondire il rapporto tra la protagonista (Lise Leplat Prudhomme fantastica) e l’assoluto, facendo del dialogo con Dio una questione privata di sguardo e di luoghi: la natura contro la chiesa, luogo in cui l’uomo e la politica hanno tolto Dio dall’equazione, rendendo il processo una farsa prossima al grottesco.

Jeanne è più serioso, dura mezz’ora in più del precedente, cerca espressamente la ridondanza e la reiterazione e quindi fa emergere più forti i limiti dell’operazione, ma Dumont riesce a identificarsi fino in fondo con la sua protagonista, ne rende normali gli eccessi, riesce a far risuonare il proprio atto di fede assoluto in ciò che la circonda, attraverso una stilizzazione estrema e “brechtiana” (bella la battaglia perduta visualizzata come una coreografia equestre) che è il suo limite principale, ma anche il mezzo attraverso cui comunicare la sua idea di pathos.