Lungamente atteso, problematizzato a latere al Lido (citofonare Lucrecia Martel), J’accuse arriva e ricorda che Roman Polanski di cinema è maestro. Non discutibile. Tornando sul caso, poggiandosi ancora sullo scrittore Robert Harris (già per L’uomo nell’ombra, qui prendendo da L’ufficiale e la spia), cura quadro, composizione, visi e atmosfera, e cesella un monito su quella e questa Francia, Europa, mondo: l’antisemitismo, certo, la friabilità della giustizia e la perniciosità del sistema, ovvio, ma anche la pena personale e la responsabilità individuale. Il suo approccio, rispetto al caso Dreyfus, è thriller: un altro uomo nell’ombra, almeno nel riconoscimento diffuso della Storia (parliamo di Piquart, più che Dreyfus), e altre trame da sventare, passo dopo passo, udienza e cella dopo l’altra, con estrema dedizione per la verità dei fatti, la verità storica.

Del capitano di origine ebraica Alfred Dreyfus - incarnato da Louis Garrel - accusato nel 1894 di aver passato informazioni militari ai tedeschi e condannato all’ergastolo sull’isola del Diavolo, Polanski decritta la menzogna sistemica architettata ai suoi danni: prove inesistenti e artefatte, antisemitismo montante; illumina la “cura”, giacché sull’affaire prese posizione, con il celeberrimo J’accuse, una lettera pubblica al presidente della Repubblica, lo scrittore Èmile Zola, ma sulla scorta di Harris segue la storia dalla prospettiva dell’ufficiale George Piquart (Jean Dujardin), che da neo-capo del controspionaggio indaga sul flusso di informazioni ai tedeschi. No, dopo l’arresto di Dreyfus non s’è arrestato.

Co-prodotto con la Francia dall’Italia, Luca Barbareschi e Rai Cinema, J’accuse elogia il (fare il proprio) dovere, mette alla berlina le alte cariche tronfie e fatue, i sottoposti correi e corrivi, divelle l’ingranaggio del potere, l’homo homini lupus istituzionalizzato, e apre alla residua speranza: tocca all’uomo, anzi, a un uomo conoscere perché non si possa più ignorare, scoprire perché non si possa più annichilire, affrancare perché non si possa più ingiustamente punire.

Dujardin ha calma, eleganza e probità, Garrel è perfetto, Polanski può contare anche sulla consorte Emmanuelle Seigner, Mathieu Amalric e Denis Podalydès, e il film grandemente ne beneficia: thriller per genere, commedia umana per guadagno, trattatello politico per analisi, grande cinema per immagini. Polanski non si dà arie, tranne che quelle di Alexandre Desplat, non si pavoneggia, solo ci fa vedere meglio: le focali lunghe della Storia, il nostro qui e ora. Chi dimentica è complice, anzi, carnefice.