Sempre più Jacques Tati, Elia Suleiman (ES) scappa dalla Palestina, solo per accorgersi che la Palestina è ovunque. Da Parigi a New York, qualcosa, qualcuno gli ricorda sempre la madrepatria.

In Concorso a Cannes 72 – dieci anni dopo Il tempo che ci rimane - con It Must Be Heaven, il regista palestinese si chiede quale, dove sia il posto che chiamiamo patria, e, silente e per lo più immobile, sguardo sovente in camera, rintraccia la (im)possibile risposta in giro per il mondo, che poi più che mondo è un microcosmo a immagine e somiglianza della natale (28 luglio 1960) Nazareth.

Dunque, tutto il mondo è paese, pardon, Palestina, che siano i poliziotti sui pattini o il segway nella Ville Lumière, i newyorkesi armati fino ai denti, la gara per accaparrarsi una sedia fronte fontana, sempre a Parigi, e così via. Sì, nonostante l’inversione dichiarata – dalla Palestina microcosmo per il mondo al mondo microcosmo per la Palestina – siamo alle solite, ovvero al testimone muto, meglio, (auto)silenziato delle disforie del mondo, ma stavolta la misura pare colma o, meglio, stracca: si sorride, al più, ma oltre alla vis comica manca quella poetica, quella politica. Insomma, ES scappa dalla Palestina per trovare - letteralmente - il luogo comune.

Non casualmente, deve ricorrere all’iperbole – gli americani iper-armati, trovata degna di Benny Hill – o alla spiegazione – i produttori francesi che lo snobbano o, peggio, gli cassano il progetto perché “poco palestinese”. Peccato, malgrado il titolo siamo in purgatorio, anzi, nel limbo. O forse nell’Antinferno degli ignavi?