In un teatro di Atene, ai giorni nostri, un gruppo armato fa irruzione durante l'inizio di uno spettacolo ispirato all'Orestea di Eschilo. Le luci del palcoscenico, anziché accendersi, si spengono, ma gli spettatori in sala non si staccano dalle proprie poltrone. Alexandros Vardaxoglou, il leader del gruppo che si autodefinisce il "Coro", dà inizio a una rappresentazione speciale, invitando chi vuole a unirsi a lui per dare vita a una recita "a soggetto".

"Quello che succede qui è realtà o finzione?" è la domanda che Alexandros pone a Clelia, una delle inconsapevoli spettatrici salite sul palco. Ed è la questione chiave di tutta l'opera d'esordio di Yorgos Zois, il talentuoso giovane regista greco che realizza un film ambizioso, in cui l'eterno confronto tra arte e vita, tra finzione e realtà, tra rappresentazione e verità diventa il punto di partenza per un discorso che partendo dal Mito greco, dall'epica, arriva a lambire i temi più attuali e politici del terrorismo e della comunicazione contemporanea.

Il film rievoca l'attacco terroristico al Teatro Dubrovka di Mosca del 2002, dilatando all'infinito i primi attimi in cui gli spettatori non si resero conto di cosa stava succedendo, credendo che fosse tutto parte della rappresentazione.

 

Il film procede con un ritmo ipnotico, in cui momenti più incalzanti vengono spezzati da scene spiazzanti, come quella quasi onirica del pasto offerto nell'intervallo.

La tensione incalzante genera inquietudine ma non esplode mai, piuttosto implode. Il sangue che scorre non è mai quello del pubblico, sono gli attori del gruppo a immolarsi per portare avanti quella che sembra essere un'estrema difesa del compito di catarsi e purificazione dell'arte. Il teatro, la tragedia, possono ancora salvarci?

Yorgos Zois non lo sa, ma le reazioni del pubblico all'assurda rappresentazione a cui assiste lasciano pensare a una massa passiva, obbediente eppure mai sazia di sangue e grottesco. Per il regista Interruption è un film sull'atto del vedere. Ci si può spingere anche all'estremo sacrificio, ma forse non esiste deus ex machina né liberazione possibile.

L'iconografia è ricchissima, pagana e cristiana, mentre i ruoli del teatro classico greco si incarnano nei loro interpreti attuali, che ne sono allo stesso tempo prosecuzione infinita e parodia raccapricciante.

 

Il mito di Oreste si proietta nell'oggi, con la prima sentenza della storia pronunciata dal popolo, quella che decide l'innocenza di Oreste assassino della madre Clitennestra, che mette al centro della riflessione di Zois il pubblico e il suo ruolo sempre più indistinto eppure fondamentale nel magma della società contemporanea virtuale.

Ma c'è una risposta a tutto questo? La fine del film non lo chiarisce, ma la catarsi, quel potere salvifico che è proprio dell'arte, si compie nel modo più violento e allo stesso tempo coinvolgente.

È però l'epilogo che probabilmente regala un senso ancora più vivo e autentico a tutta la riflessione del film, il momento in cui la vita e l'arte riescono a incontrarsi e fondersi, un attimo in cui il significante dell'immagine sposa infine un suo significato, il più semplice. Nella danza alienante eppure dolcissima che precede i titoli di coda, forse, troviamo la risposta al mistero di Alexandros e della sua compagna del Coro.

Il mistero più doloroso, la risposta più bella.