Certe coincidenze sembrano, e magari sono, architettate puntualmente per manifestarsi, al momento giusto, nel luogo giusto. Una di queste è la presentazione de Il Pianeta in Mare, di Andrea Segre,  alla 76° edizione della Mostra Internazionale d’Arte cinematografica di Venezia.

Perché, se non precisamente al Lido, a Marghera volge l’occhio il regista italiano, che torna dopo due anni al festival, stavolta con in mano un documentario. Di documentari però questa Venezia è densa e robusta, con esclamazioni potenti del calibro di Colectiv. Quindi la competizione, benché fuori concorso, è piuttosto agguerrita.

Il pianeta in mare, però, si presenta col respiro calmo, battito regolare e sangue freddo, inquadrando con tutta la pacatezza possibile un arazzo composito, fatto del solco delle fratture socioeconomiche, anzi, del tessuto ricalcificato incorrettamente su un territorio industrializzato fino, e oltre, i limiti del salubre.

Marghera è, oggi e ancor oggi, una fabbrica abitata da giganti: all’apparenza, per estensione e profondità, quantità e ritmo di produzione. Ecco dove nascono le titaniche navi da crociera tanto spesso oggetto di polemiche. Ed ecco anche le piccole formiche che si occupano di comporle dall'interno, sezione per sezione, nei minimi dettagli. Ecco infine gli enormi bracci meccanici che ne montano le parti più che titaniche, colossali.

Ma non solo: Il Pianeta in Mare, forse per meglio rendere l’idea di un ecosistema comunque evoluto, si prende molte piccole deviazioni nel raccontare, conferendo ad ognuna eguale e non poca importanza. A tal punto che, presto o tardi, può capitare di chiedersi quale fosse il nucleo centrale del documentario.

Beninteso, non è mai impossibile, e spesso neanche difficile, ritrovare il filo in questo labirinto di tubi di cemento e travi d’acciaio. Anche quando si seguono le vicende, più a tinte sociali, di operai immigrati in cerca di guadagni consistenti da rispedire nella vecchia casa, oppure di una sistemazione più stabile in quella nuova. Oppure quando si ripercorrono in dialetto rigorosamente regionale (e sottotitolato) i ricordi di lotte sindacali, visitandone oggi i teatri vuoti, a loro modo desolanti e malinconici, come antichi campi di battaglia.

Dunque: non un’opera particolarmente efficace, ma godibile, dai tanti e diversi spunti. Manca tuttavia nell’approfondire una sola vicenda fino all’osso, sin dove la verità scoperta non è più dimenticabile. La malinconia, o se è per questo la vicinanza ai Leoni (in ogni caso inaccessibili), ha il suo fascino, sì, ma da sola tende ad assottigliarsi come l'idea di passato di cui si ciba.