Il film non riuscito di un grande maestro, che film è? È comunque grande o comunque non riuscito? Più la prima, diremmo, nel caso de Il peccato di Andrei Konchalovsky, con cui il regista russo inquadra, anzi, sbozza Michelangelo.

E’ un lavoro a levare, come un blocco di marmo di Carrara dalla montagna, come Michelangelo dal devozionismo, dall’oleografia e agiografia dell’artista genio, e però disincarnato, mai terragno, sempre etereo.

No, Konchalovsky il Rinascimento lo vuole far rinascere, dunque, sottrarre ai correnti calchi audiovisivi, per trovarne l’umanità, l’uomo dentro, dietro e davanti l’artista: non esiste opera senza autore, non esiste autore senza l’uomo. L’opera può rimanere in potenza, come il blocco gigantesco, il “mostro” staccato dalla montagna perché diventi arte, ma l’uomo va messo in atto: avidità, ambizione, invidia, scaltrezza, competizione, predominio, Michelangelo - da cui verrà tanto bello – è brutto, sporco e cattivo.

Konchalovsky lo sa, meglio, lo sente, e ne fa un film a propria immagine e somiglianza, ovvero un film sul cinema, nello specifico, un film sulla committenza: non la meritano, viene detto, la bellezza i tiranni, assassini, eppure sono loro ad averne facoltà, disponibilità, indirizzo. Oggi come allora, e chi l’ha prodotto questo Il peccato?

“Un consistente contributo del Ministero della Cultura della Federazione Russa, della Fondazione di beneficenza per l’Arte, la Scienza e lo Sport e di Alisher Usmanov – produttore generale, insignito dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana – e con la partecipazione di Pervyi Kanal (Primo Canale, Russia)": tiranni, assassini? Non scherziamo: committenti.

Michelangelo, interpretato da Aberto Testone, snobba Sansovino (Federico Vanni), compete con Raffaello (Glenn Blackhall), si destreggia – a fatica – tra Medici e Della Rovere (Francesco Maria è Antonio Gargiulo), Papa Giulio II (Massimo De Francovich) e Papa Leone X (Simone Toffanin): per cosa? Per essere sé stesso, in fondo, perché la sua vita abbia un senso, anche nella turpitudine, nella putritudine, nell’abiezione, ma un senso: carnale, passionale, violento e vieppiù creativo. C’è il marmo, ma ha mole umana, ci sono i bozzetti e i plastici, ma vedi il sudore, lo sforzo, il lercio: che significa esprimersi, e a che condizioni è lecito farlo? Vediamo mai al lavoro Michelangelo? No, già nel Cinquecento si lavorava per poter lavorare: Il peccato non è un film sul cinema, ma un film sulla (im)possibilità di fare cinema.

La cosa migliore sono i cavatori, gli uomini di fatica perché il genio possa faticare, e hanno corpi, facce – i due giganti, superbi – che non si dimenticano: uomini che vivono sul precipizio, in bilico, e qui Il peccato vola da fermo, trascende senza dimenticare terra, carne e gravità. Altro, molto altro, non funziona: ci sono interpreti imbarazzanti appena aprono bocca, ma hanno le facce giuste, e la non padronanza della nostra lingua deve aver indirizzato ancor più il regista a preferire le seconde, con qualche guaio. Più di qualche guaio.

Nondimeno, quando il mostro viene calato dal monte – luttuosamente, e per finire inutilizzato e sospeso fronte mare – capiamo, sentiamo qual è il film uguale e contrario a Il peccato. È Fitzcarraldo, di Herzog: là la nave oltre il monte, qui il marmo giù dal monte. Sono i grandi, gli indomiti e i paraculi a fare le imprese. Anche quando non riescono.