Un breviario partigiano. Questo il sottotitolo per un documentario che ha il sapore del memoriale intimo e, allo stesso tempo, di uno scavo filmico che si arricchisce della volontà di rievocare l’esperienza tragica della resistenza partigiana durante il secondo conflitto mondiale. Tutto ruota intorno alla figura allampanata e occhialuta di Massimo Zamboni, chitarrista dello storico gruppo punk-rock italiano dei CCCP (divenuti poi, in seguito alla caduta del Muro, i CSI).

Evento centrale, per Zamboni, è la scoperta della verità sul nonno materno, fascista ucciso dai partigiani nel 1944: la riflessione sul passato familiare diviene dunque occasione per ampliare lo sguardo sui valori e sulla memoria della Resistenza, sul significato che essa ancora può rivestire per le generazioni contemporanee, alla luce di oltre mezzo secolo di profondi mutamenti sociali e culturali della nazione italiana.

Il regista Federico Spinetti adotta un approccio umile, quasi dimesso, prudentemente al servizio del Zamboni narratore e dei suoi vecchi compagni musicisti tornati dopo anni a suonare insieme proprio per la realizzazione di questo film (Giovanni Lindo Ferretti escluso).

Il rischio dell’operazione-nostalgia è innegabilmente in agguato, soprattutto per chi ebbe modo di seguire i CCCP nel loro fulminante percorso artistico composto di furia punk e passione esistenziale prima ancora che politica. C’è da dire, tuttavia, che il tono e le riflessioni sollevate su di un momento fondante della nostra storia recente (toccante il segmento dedicato alle foto dei partigiani caduti e ai loro nomi di battaglia), scongiurano il rischio di un’opera spaccata a metà fra differenti percorsi narrativi.

Infine, lo spettatore cinematograficamente più avvertito, può “annusare” nell’aria umida, nella foschia della campagna emiliana, echi lontani del Novecento di Bertolucci. E non è poco.