Chi era Gabriele D’Annunzio? No, non è una traccia del tema di maturità al liceo. Non ce lo raccontano i giovani maturandi, questa volta Il cattivo poeta (questo il titolo) ce lo ritrae Gianluca Jodice nella sua opera prima e lo impersona Sergio Castellitto. Prodotto da Matteo Rovere e Andrea Paris, insieme a Nicolas Anthomé, questo biopic (coproduzione italo-francese), ci racconta il sommo poeta, simbolo del decadentismo e celebre personaggio della prima guerra mondiale, sul viale del tramonto.

In auto-esilio nel Vittoriale, complesso eretto tra il 1921 e il 1938, a Gardone Riviera sulla sponda bresciana del lago di Garda, ossessionato dai topi, preda della cocaina, circondato da donne, questa figura così contraddittoria, anticonformista e scomoda (“Un Nosferatu che poi ha subito una damnatio memoriae”, lo definisce il regista) non era mai stata raccontata al cinema.

Anno 1936, Giovanni Comini (il bravo Francesco Patanè per la prima volta sul grande schermo) è appena stato promosso federale dal suo mentore, Achille Starace, segretario del Partito Fascista e numero due del regime. Comini viene convocato a Roma per una missione molto delicata: dovrà sorvegliare Gabriele D’Annunzio (“niente deve essere tralasciato, neanche le storielle piccanti”), perché il Vate, il poeta nazionale, negli ultimi tempi appare contrariato e Mussolini teme che possa danneggiare la sua imminente alleanza con la Germania di Hitler.

I venti di guerra stanno smettendo di essere una brezzolina primaverile e si fanno sempre più forti. Il poeta, per anni condannato ai lavori forzati dell’eloquenza, non vuole scrivere per le “camicie sordide” (nere) e ora se ne sta chiuso dentro il Vittoriale, costringendo quei giardini ad essergli “foresta” e quel quieto lago ad essergli “oceano”. Irascibile, rassegnato, vecchio (“e i vecchi amano solo la loro sopravvivenza, perlomeno non sono gobbo come il recanatese”), il D’Annunzio-Castellitto (che per l’interpretazione si è rasato a zero) ha però ancora qualcosa da insegnare a chi è giovane e ha davanti a sé più futuro che passato: la disobbedienza.

Ecco, D’Annunzio elogia l’infedeltà, la mancanza di conformismo, il libero pensiero, gli ideali (non le regole), la passione autentica perché “quando ti nasce un sentimento per qualcosa è bellissimo”.

La politica è in sottofondo (come nel breve pezzo del filmato del viaggio del Duce a Berlino). Non è un caso anche la scelta di inquadrare Mussolini quasi sempre di spalle, senza praticamente dargli un volto. Al suo posto parlano i palazzi imponenti dell’architettura razionalista, rivelandoci ancor più cos’è stato il fascismo. Non è comunque un film politico, piuttosto è un film filosofico, sulla vita. E anche sul linguaggio.

Di fatto dietro ogni parola, ogni frase e ogni battuta c’è un grandissimo lavoro storico e filologico. Sono stati recuperati diari e scritti di D’Annunzio (utilizzati poi nella sceneggiatura scritta dallo stesso Jodice). Gran parte della documentazione è stata ripresa dal libro dello storico e giornalista Roberto Festorazzi, uscito per la prima volta nel 2005, dal titolo: D’Annunzio e la piovra fascista. Spionaggi al Vittoriale nella testimonianza del federale di Brescia. Si resta affascinati dalla bellezza della prosa, nonché dalla splendida location, il Vittoriale, vero e proprio personaggio silente della storia, dove tutto è “azzurro, vitreo, cristallino”. Ma colpiscono anche gli arredi e i tanti oggetti che sono appartenuti al poeta (sul set c’era perfino un props manager, pronto a collocare il materiale all’inizio di ogni take o a fornirlo agli attori per la recitazione), esaltati dalla fotografia (Daniele Ciprì) e dalla scenografia (Tonino Zera).

A un certo punto nel film si dice: “Tutti abbiamo bisogno di un balcone dal quale recitare: ci sono i bravi e i cattivi attori”. Ecco, qui oltre ad esserci dei bravi interpreti e delle brave maestranze, c’è anche un bravo regista, e soprattutto c’è una bellissima storia che andava raccontata al cinema con una penna di piume di pavone (lascito di D’Annunzio a Comini). Una bella ruota ci sta.