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Margaret Qualley in Honey Don't (2025)
A differenza di quanto accaduto con Drive Away Dolls, il lungometraggio d’apertura della trilogia queer firmata da Ethan Coen e Tricia Cooke, i due autori (nonché coniugi) sembrano avvertire per tempo il loro pubblico circa la riuscita effettiva dell’imminente secondo capitolo. E lo fanno a partire dal suo stesso titolo, Honey Don’t! dapprima monito apparente, e poi preghiera inascoltata. Poiché Coen e Cooke lo hanno scritto (e poi filmato) per davvero, questo (di)sgraziato noir a tinte erotiche, che torna a servirsi di uno dei volti e corpi cinema più seducenti e funzionali dell’ultimo periodo: quello di Margaret Qualley, fagocitato da una demenzialità fine a sé stessa, che nulla colpisce e affonda, e da un immaginario kitsch ormai fuori misura, sulle tracce sempre più confuse di Russ Meyer e John Waters.


Honey Don't © 2025 FOCUS FEATURES LLC. ALL RIGHTS RESERVED.
Fallimentare il road movie, intorpidito il noir. E pensare che dai titoli di testa avremmo detto l’esatto contrario. Poiché la strada torna ad essere protagonista, svelando gli scenari di un’America provinciale e pittoresca, dai tratti sottilmente hitchcockiani, che, pur intrigando, risulta tristemente destinata a perdersi. Segue infatti un confuso e poco coerente incidente d’auto nel bel mezzo del deserto del New Mexico, e così il furto di un anello. Ad avviare le indagini è un giovane sceriffo in pieno stile Coen, che risveglia, seppur dolentemente, la gloria dell’idiota, interpretato dall’esilarante Charlie Day del dittico Come ammazzare il capo… e vivere felici. Il quale è però messo all’angolo (si fa per dire) fin dal primissimo minuto dalle figure che realmente interessano a Cooke e Coen: ossia le donne forti, attraenti e inevitabilmente capaci della situazione. Dall’investigatrice privata Honey O’Donahue (Qualley), all’agente di polizia MG Falcone (Aubrey Plaza), fino alla misteriosa femme fatale venuta dalla Francia, Chère (Lera Abova). Colei che è incaricata di dominare e ridicolizzare il secondo idiota del delirante plot: il reverendo ninfomane ed egoriferito Drew Devlin, interpretato da un Chris Evans mai così goffo e fuori ruolo.


Chris Evans in Honey Don't (2025)
Tutt’attorno, omicidi sanguinolenti dalle motivazioni via via più confuse e surreali; moltissimo sesso lesbo (e non solo), caratterizzato, a differenza del precedente capitolo, da uno sguardo maggiormente erotico e meno comico; e infine dialoghi che vorrebbero stancamente rintracciare la vena grottesca, arguta e nerissima del primo cinema Coen, senza di fatto riuscirci. Cinema che, ad oggi, risulta non soltanto irrintracciabile, ma perfino irreplicabile. Infatti, laddove Ethan sembra desideroso di tornare agli scenari e alla tensione narrativa di Non è un paese per vecchi — le dissolvenze sul deserto, la notte americana e le conseguenze inavvertite di un furto e del caos violento ormai inarrestabile — Cooke smorza, indagando la femminilità e la questione dei corpi, dapprima insozzati di sangue e poi d’umori, ricercando sempre e comunque la demenzialità priva di mordente e affondo. Il sorriso sfugge, dopodiché resta il silenzio o, peggio, la delusione. Ci si confonde, per poi ritrovarsi, fino a perdersi ancora. È l’effetto del nuovo cinema firmato Ethan Coen?
La risposta appare scontata. Eppure qualche elemento d’interesse sopravvive, nonostante il kitsch sovrabbondante e una stilistica noir eccessivamente farsesca, chiaramente figlia di un John Waters fuori tempo massimo. Il quale in adorazione dello squallore, inchioda il marcio della società, deridendolo e denunciandolo al tempo stesso, senza mai rinunciare ai corpi. Nel caso di Honey Don’t! a restare inchiodata è l’America trumpiana e le violenze domestiche che, al grido di “Maga, Maga, Maga”, si ripetono senza sosta, fino alla giustizia privata più catartica e soddisfacente possibile, declinata questa volta al femminile. Cooke e Coen vorrebbero dirci qualcosa sulla violenza sregolata dell’America d’oggi. Appunto, vorrebbero.