Sic transit Gloria mundi, e che abbia in testa Robert Guédiguian lo rivela nelle note di regia: “Parafrasando Marx: ovunque regni, il neocapitalismo ha schiacciato relazioni fraterne, amichevoli e solidali, e non ha lasciato altro legame tra le persone, se non il freddo interesse e il denaro, annegando tutti i nostri sogni nelle gelide acque del calcolo egoistico”. Prosit.

Sicché, nuovamente in Concorso a Venezia dopo il convincente La casa sul mare del 2017, il regista francese dirige un film a tesi, appoggiato su un manipolo di fedelissimi e non: Ariane Ascaride, Jean-Pierre Darroussin, Gérard Meylan, Anaïs Demoustier, Robinson Stévenin, Lola Naymark, e a Marsiglia raccoglie i cocci di una lotta di classe che oggi è implosione familiare, guerra tra poveri consanguinei, e ci siamo capiti.

La neonata Gloria non sarà il sol dell’avvenire, ma una pioggia fina che inzuppa le ossa e marcisce dentro: i nonni (Ascaride e Darroussin) sono solidali e impotenti, i genitori o falliti e provati (Demoustier e Stévenin) o rampanti, tutti coca e sesso, e forse a cavarsela meglio è chi esce di prigione dopo decenni, gli haiku per compagni, il mondo fuori per estraneo.

Nobili intenzioni, esiti pessimi: Gloria mundi è film massimamente non riuscito, malamente programmatico, vanamente paradigmatico, una serie di sfortunati eventi catalizzato dall’ideologia, edificante tra le macerie.

Gli attori ci provano anche, ma il film sta peggio dei loro poveri personaggi: tutto tagliato con l’accetta, esemplare e smodato, e quando nel finale compare il ralenti con tanto di battito cardiaco, be’, sic transit gloria film.