Dopo il cult del 1984, il sequel non così esaltante del 1989 e il dimenticabilissimo reboot femminino del 2016, Ghostbusters torna in auge, con titolo non negoziabile: Afterlife. Eppure, la trascendenza non abita qui, almeno qui in Italia, giacché il ritorno al futuro diretto da Jason Reitman, prodotto dal padre Ivan già dietro alla macchina da presa dell’originale, da Trieste in giù si chiama Legacy, ovvero “Eredità”.

Scritto dal regista a quattro mani con Gil Kenan, inquadra un’affiatata famigliola, la mamma single Callie (Carrie Coon), il figlio quindicenne Trevor (Finn Wolfhard) e la figlia dodicenne Phoebe (Mckenna Grace), che sfrattata dal proprio appartamento di Chicago deve necessariamente trasferirsi nella fatiscente fattoria di Summerville, Oklahoma appartenuta al padre della donna. E chi era quel padre distante e distaccato se non Egon Spengler, che per trasferirsi da Manhattan all'Oklahoma rurale aveva buonissime ragioni? A incarnarlo fu Harold Ramis, anche sceneggiatore nel 1984 e nel 1989 in coppia con Dan Aykroyd, che qui torna post mortem - è scomparso nel 2014 – in una sequenza toccante: Afterlife è cosa sua, e il film gli è dedicato.

Trevor (Finn Wolfhard) in Columbia Pictures' GHOSTBUSTERS: AFTERLIFE.

Diciamolo subito, questo Ghostbusters è un ottimo prodotto, che presumibilmente troverà importanti riscontri al botteghino: la scrittura di Reitman non sarà così brillante e sarcastica come in Juno, Thank You for Smoking e Tra le nuvole, ma poggiandosi sulle spalle dei giganti di ieri, dal Mago di Oz ai Goonies e Incontri ravvicinati del terzo tipo, e sulle belle sorprese di oggi, Stranger Things (da cui viene Finn Wolfhard) su tutti, trova estro, affetto e tempismo per una rimpatriata aperta a tutti, il pubblico dell’originale e i neofiti. Torna Gozer, tornano in carne e ossa i demiurgici Peter Venkman (Bill Murray), Raymond "Ray" Stantz (Dan Aykroyd), Winston Zeddemore (Ernie Hudson) e Dana Barrett (Sigourney Weaver), cui si aggiungono determinanti e prevalenti il sismologo amatoriale Cary Grooberson (Paul Rudd), la bella Lucky (Celeste O’Connor) e il piccolo e letterale Podcast (Logan Kim).

Ghostbusters: Legacy

A loro la missione di costruire un ensemble umano contro la rinnovata minaccia fantasmatica, a loro opporsi al ritorno di Gozer, tenendo al contempo la barra temporale dritta: non c’è nostalgia canaglia, ma duttile – e straniante in un’epoca digitale – impiego del digitale; non c’è la superfetazione del “come eravamo” da superstiti coscritti, ma amalgama accorto e, perfino, accorato di pop passato e prossimo, con le Easter egg del caso e i battiti dell’immaginario collettivo. A modo, se non a bada, gli effetti speciali, affinché l’eccesso di CGI non offenda filologia e mitologia, Ghostbusters: Legacy gode della stessa relazione dei Reitman, padre Ivan e figlio Jason: un apologo formato famiglia, un’impresa familiare, ovvero l’elogio dei legami, sangue o fantasmi poco importa.

Se l’unione fa la forza, e il volemose bene pure, non tutto torna nel film, soprattutto nella seconda parte, dove lungaggini, stracche e Easter egg bollite abbondano, ma la forza di Legacy sta più che nella ricetta negli ingredienti, semplici e tradizionali, sapidi e rurali. Chissà che tra messaggi ecologici e cura per il prossimo il ritorno al futuro non sia il passato che ritorna: il solito cognome e un altro nome, per esempio?