“L’ultimo dei romantici” lo definisce Aldo Grasso, che al di là della fama d’incontentabile catone fu tra uno dei più lucidi nell’analizzarlo, non solo come fenomeno mediatico. E certo “romantico” non è il primo termine che ci viene mente di fronte a Gianfranco Funari, ma tutto sommato anche a questo servono i critici: leggere le cose attraverso uno sguardo eccentrico rispetto alle convenzioni.

Disponibile su Sky e NOW a novant’anni dalla nascita di uno dei personaggi televisivi più determinanti per capire sogni e bisogni di un popolo, Funari Funari Funari di Marco Falorni e Andrea Frassoni è un documentario che omaggia ma non celebra, racconta senza mitizzare, rievoca una stagione – anzi tre – schivando la trappola della nostalgia.

Lo si capisce dal parterre di intervistati: due mogli (la prima, determinante nell’ascesa e poi tradita all’apice della gloria; e la seconda, la giovane vedova che l’ha accompagnato fino al tramonto), un paio di amici e collaboratori, ma soprattutto analisti (Grasso, Massimo Bernardini, Matteo Bordone) e colleghi che si dichiarano discepoli (Piero Chiambretti e Paolo Bonolis).

In questo senso l’idea è interessante: giacché la vita privata di Funari (ci sono molti gustosi home video) ci interessa nella misura in cui può incidere sulla parabola pubblica, l’intenzione appare quella di svincolare Funari dall’aneddotica per riconsegnarlo alla storia del costume, interpretarlo alla luce di ciò che ha annunciato e anticipato (il gentismo quale anticamera del trionfo politico di programmi populisti), sottolineare le varie fasi di un titanismo disperato e a tratti assurdo (cosa diavolo vuol dire “ficcare un dito nel c**o del futuro”? Niente ma funzionava e spiegava molto dell'uomo).

Il titolo moltiplicato per tre allude alle vite reali e virtuali di Funari, nato croupier, reinventatosi cabarettista e scopertosi conduttore. Il documentario si concentra proprio su quest’ultima dimensione, raccontando l’evoluzione del personaggio: prima, negli anni Ottanta, da Telemontecarlo a Rai Due, mettendo in scena lo scontro rissoso tra due schieramenti sulla qualunque; poi, nei Novanta, con il passaggio a Fininvest e lo sfruttamento (reciproco) della politica (e il sostanziale appoggio a Berlusconi); infine, nel terzo millennio, le esperienze corsare nelle emittenti private dopo essere stato emarginato dalle tv pubblica e commerciale.

Servendosi di un avatar del protagonista che, seduto al tavolo da gioco, fa da collante alla narrazione, Funari Funari Funari si accontenta di essere un documentario nella consapevolezza che, in un altro Paese e con un altro sistema produttivo, la storia di una figura così clamorosa sarebbe stata perfetta per un biopic scatenato e malinconico, con il racconto di un’Italia che conosce la massima sbornia edonista, la massima veemenza giustizialista, la massima sbandata populista.

Gianfranco Funari in Aboccaperta (credits: Sky)
Gianfranco Funari in Aboccaperta (credits: Sky)
Gianfranco Funari in Aboccaperta (credits: Sky)
Gianfranco Funari in Aboccaperta (credits: Sky)

Ma, dato che siamo quello che siamo, ci accomodiamo su questa ricostruzione circostanziata e onesta, che sceglie di focalizzarsi sulla rappresentazione di un uomo di spettacolo che decide di diventare un tribuno del popolo e si lascia distruggere dal desiderio impossibile di essere incoronato capo di qualcosa (direttore di un quotidiano, sindaco, presidente: tutte sfide perse).

Sedotto e abbandonato da aziende che lo usano e se ne disfano perché troppo irregolare (Rai per sfondare sui target commerciali, Fininvest che ne esalta lo spirito da venditore), da superiori che sentiva affini (Di Pietro e soprattutto Berlusconi), da un popolo che in fondo era solo un pubblico. E perciò la lettura di Grasso appare centrata: romantico perché alla ragione e al (buon)senso ha contrapposto il sentimento popolare, l’istinto animale, una spontaneità sfrenata e spudorata.