Fulci Talks Again. A distanza di oltre venticinque anni il regista di Non si sevizia un paperino torna infatti a parlare grazie all’ultimo lavoro di Antonietta De Lillo, che lo aveva già raccontato nel 1994 con La notte americana del Dr. Lucio Fulci. Un video ritratto da cui il montaggio per ragioni di spazio aveva tagliato fuori ore di materiali che chiedevano di avere nuova vita, difatti ripescati e rimontati dando l’illusione che su di essi non sia stato fatto alcun intervento, sono confluiti in un film dalla natura ibrida di grande potenza e fascino. Stupisce tanto questa confessione straordinaria, maieuticamente sollecitata da De Lillo in compagnia del critico Marcello Garofalo, di uno dei registi più vitali ed eccentrici che il cinema italiano abbia avuto la fortuna di avere. Un geniale artigiano. Un maestro di bottega. Un visionario. Uno che durante il giorno studiava modi per girare una scena di omicidio e la sera si nutriva di Baudelaire, Socrate, Henry James. Uno che è stato regista ma che sognava di fare l’attore. Un eclettico votato all’incoerenza.

 

Seduto su una sedia a rotelle, lingua tagliente, cultura profonda e una passione mai doma per il cinema e i suoi generi, Fulci riflette senza alcun freno sulle sue ossessioni, i suoi film, gli autori italiani e stranieri, la società e la politica, rivelando una propensione al giudizio lapidario che colora di vivacità quello che alla fine si rivela più un flusso di coscienza che una lunga intervista. L’autore di Non si sevizia un paperino snocciola battute fulminanti accanto a considerazioni sulla natura del cinema che, divise in capitoli, potrebbero costituire un vero e proprio compendio sulla difficile arte di essere un autore dal carattere multiforme e complesso, mai ripetitivo.

 

A colpire prima di tutto è la lucidità e il distacco con cui guarda a se stesso, oltre che agli altri. Un atteggiamento che equivale a una boccata di aria pura in tempi di narcisismo autoriale, presunzione dilagante, autoreferenzialità immotivata. Fulci no. Fulci analizza e smonta i suoi film esattamente come sviscera le opere dei colleghi. Un demolitore democratico. “Sono un coacervo di incoerenze”, racconta. Subito a ogni buon conto precisa che l’incoerenza è fantasia, rivendicando la scelta di voltare le spalle a un genere dopo averlo conquistato. Poteva essere a vita uno dei due re italiani del thriller e dell’horror, ma senza il desiderio di confrontarsi con nuovi linguaggi e nuovi universi avrebbe tradito la propria natura. “Sto dentro il genere ma ogni tanto metto la bomba per far deflagrare il genere”, chiarisce. Solo chi sta fermo non evolve, e il riferimento all’altro re del thriller Dario Argento non è puramente casuale. Affermazioni che nascondono una sottile vendetta rispetto alle accuse di plagio che gli furono rivolte per alcune trame e scelte di stile troppo simili a quelle del rivale. Fulci affonda il coltello: “Argento, è lui che dice che ho copiato ma io non lo posso copiare. Io sono un mite lui invece, Argento, vive negli incubi”. E per chiudere il discorso: “Io mi distinguo da Argento perché lui non ha ironia”.

 

Ecco, l’ironia. Un filo sottile che, anche quando tragica e amara, cuce il flusso di aneddoti, ricordi, pensieri. Un’arma di difesa e di attacco che Fulci utilizza con sapienza per controllare i propri stati d’animo, teso a tenere a bada una natura ruvida eppure immensamente ricca e sfaccettata di uomo e di artista. Si nasconde, l’impressione tuttavia è che l’uomo nella vita abbia attraversato successi e rovesci di fortuna esattamente come l’artista ha nuotato da un mare all’altro solcando il comico, il thriller psicologico, il paranormale, il film di denuncia, la fantascienza. Un viaggio umano e artistico compiuto sempre applicando a piene mani quella  famosa ironia, l’ancora di salvezza per non essere travolti dalla consapevolezza di una dura verità: “il regista è sempre solo”. Al massimo in compagnia dei film preferiti, primo tra tutti L’Atalante cui seguono Zéro de conduite, Detour, Amarcord e Freaks.  O dei registi italiani amati, come Petri, Zurlini, Fellini, Antonioni, Steno, Bertolucci, Moretti.  E fuori dai confini nazionali? Spuntano i nomi di Scorsese, Ashby, Spielberg, Eastwood, Tarantino, ma non Bergman. “A me di Bergman non mi frega niente. Vedo un film, mi piace, ma poi torno a casa e non ricordo più nulla”. Così parlò Fulci.