“La mia vita è frantumata in piccoli pezzi” sentenzia Michelle Pfeiffer con un sorriso inquieto, appollaiata come un rapace ferito sul divano della sua nuova dimora, sorseggiando una coppa di champagne. Nella calda oscurità di un luogo che è ritiro e ritirata si riverbera la luce di Fuga in Francia, la commedia che avrebbe dovuto garantire premi e onori alla splendida protagonista.

Un veicolo, come si sarebbe detto un tempo. Che però si è rivelato inadeguato ad accompagnare la star nella prospettata rentrée nell’olimpo: una nomination al Golden Globe e poco più, incassi miseri nei mesi della pandemia e, di conseguenza, uscita italiana esclusivamente in digitale su CHILI.

Un peccato, non tanto per il film in sé, bizzarro sì ma non sempre capace di reggere il peso della sua ambizione, quanto proprio per Pfeiffer. Meriterebbe grandi occasioni, questa figura liminare nel cinema americano, ormai tra le poche a rivendicare il carisma di una diva eterea e carnale, ultimo corpo contundente degli erotici anni Ottanta ma anche figura romantica in grado di capitalizzare nostalgia e promessa di futuro.

Consapevole della rara possibilità di ricoprire un ruolo preminente alla sua età, Pfeiffer dona tantissimo al personaggio di Frances Price, socialité newyorkese alla quale la banca sequestra tutte le proprietà dopo la morte del marito. Rimasta senza soldi ma con un figlio introverso da mantenere, vende tutto e scappa con il ragazzo alla volta di Parigi, ospiti a casa di un’amica. In compagnia di un gatto che dovrebbe essere la reincarnazione del marito defunto, i due conoscono nuovi bislacchi amici con i quali si intrattengono in sedute spiritiche e passeggiate in una città dai colori e umori autunnali.

© CHILI
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All’origine di Fuga a Parigi (titolo originale: French Exit, corrispondente al nostro "filarsela all'inglese") c’è il romanzo del canadese Patrick deWitt (lo stesso de I fratelli Sisters, impegnato anche come sceneggiatore unico). Lo sguardo di Azazel Jacobs, invece, è rivolto alle commedie della Hollywood classica secondo gli esuli mitteleuropei, da Ernst Lubitsch a Billy Wilder. E di quella stirpe reale, il regista vorrebbe recuperare la leggerezza del tocco, l’ironia per filtrare la malinconia, il senso della fine.

È difficile dire se sia più Pfeiffer al suo servizio o viceversa, certo è che l’apporto dell’attrice è determinante nel tratteggiare una figura in bilico, sul crinale tra fragilità e dolore, con troppo passato alle spalle e pochi domani felici. Accanto a lei ci sono gli ottimi Lucas Hedges (il figlio) e Valerie Mahaffey (l’amica), è Pfeiffer a sobbarcarsi la tenuta dell’intero film.

Tra una dolce autocitazione (il saluto sotto alla finestra che si rispecchia con quello che le lasciava Daniel Day Lewis nel finale parigino de L’età dell’innocenza) e quasi duemila euro spesi per qualche bottiglia di vino, Pfeiffer trasmette con acume l’altalena emotiva di una persona cosciente del dramma che sta vivendo.

“La mia vita è costellata di mille cliché” riflette ad alta voce, spiegando che un cliché “è una storia emozionante che è diventata vecchia nella speranza di essere raccontata: non tutti riescono a viverla”.

 

È come se alla profondità di questa donna capace di passare da uno schiaffo orgoglioso e una confessione spiazzante al figlio (“Mai sentita ferita come quando ho visto la tua faccia la prima volta. Tu eri tutti noi tre insieme: è stato rovinoso”) non corrisponda una regia dal fiato corto che si accontenta invece di accarezzare la superficie di un immaginario derivativo, con l’atmosfera da screwball senza brio e il décor preso all’outlet di Wes Anderson.

E mentre Fuga a Parigi va da una parte – cioè dare un po’ di pace ai suoi personaggi senza casa – Pfeiffer si incammina su un’altra strada: l’angoscia di un ritorno impossibile a una felicità solo sfiorata.