La terra non è più dell’abbastanza, non è più media, ma mediana, interseca l’abbondanza e la mancanza. E’ una terra di villini familiari e sconosciuti insieme, in cui la crisi è quotidiana, ovvero non è crisi. All’opera seconda, i fratelli Damiano e Fabio D’Innocenzo non se la raccontano più, come nel pur pregevole esordio La terra dell’abbastanza (2018), ma ci sbattono in faccia le loro, ovvero le nostre, Favolacce, un po’ favole e un po’ parolacce, un po’ Rodari e un po’ King, in cui il turpiloquio è il (mal)vivere oggi.

Siamo nella periferia sud di Roma come ovunque, le famiglie sono contigue ma crescendo non c’è prossimità, si perde la vicinanza solidale, sperimentale ed euristica che fu, ed è ancora, tra i banchi di scuola: gli adulti sono autoritari, mai autorevoli, i bambini soccombono ma non s’arrendono, la rabbia alimenta il cortocircuito, rimpolpa la disperazione, chiama la fine.

L’inferno è qui e ora, ma non divampa, implode, un grado dopo l’altro cuoci senza accorgertene, impercettibile e inesorabile, di più ineluttabile: sadici i padri, prostrate le madri, terrorizzati e terroristi i figli, rien ne va plus.

In Concorso alla 70esima Berlinale, i fratelli D’Innocenzo, che scrivono e dirigono, aprono in medias res nella terra di tutti e nessuno, e prendono il polso alla malattia del sopravvivere contemporaneo: la bisettrice non è solo tra abbondanza e mancanza, ma falcia la sperequazione scolastica, sociale, sì, politica. A scuola non c’è educazione ma istruzione, non ci sono piccoli umanisti ma piccoli chimici, a casa non c’è cultura, e sottocultura proletaria, ma censo piccoloborghese, c’è tutto e c’è niente, c’è il litorale cementificato e la palude bonificata.

C’è la speranza, sì o no? C’è la poesia spoetata di Pasolini, e la necessità di morire, c’è la parafrasi di Fofi, c’è prima e dopo uno sguardo irriducibile, che spia, stigmatizza, violenta perfino, ma non giudica.

Del resto, non servirebbe: la realtà inquadrata a mezz’altezza, di sghembo, scorciata, sfocata, lisa e perfino rubata (grande lavoro del dop Paolo Carnera) è autoassolvente, autoriproducente, non si può sconfiggerla, perché è già vinta. I D’Innocenzo prendono, consapevolmente o meno, volontariamente o no, dal primo Lanthimos, da Seidl, da Haneke, da Garrone, sopra tutto da Todd Solondz e dalle comunità lasche, le identità piagate, la psicosi diffuse e il genocidio intellettuale distillano il veleno, sintetizzano la molecola del disagio, del no future.

E lo fanno dando pieno potere all’immagine – ottime scenografie di Paola Peraro, Emita Frigato e Paolo Bonfini, bella sintassi nel montaggio di Esmeralda Calabria – facendone il precipitato dell’immaginario, e non più comunemente viceversa: entriamo, perlustriamo, conosciamo quella comunità come se fosse un Ufo, solo che è “normale”.

Ancora, c’è speranza?

Non nella famiglia del padre padrone Bruno Placido (Elio Germano, super), che rovina la vita a sé per massacrarla agli altri, fino all’auto-sabotaggio; non nell’insegnamento del professor Bernardini (Lino Musella), che dispensa formule e progetti distruttivi; non altrove, dove si cerca di contrarre il morbillo senza intendere il contagio esistenziale, dove si dà alla luce senza via di scampo.

Eppure, nel male pervasivo la speranza c’è. Non una, ma doppia.

C’è la speranza artistica, quella del primato del racconto sulla storia, della possibilità di ripartire, di continuare, o forse no, il diario interrotto, di riannodare le vite spezzate, se non delle persone, dei personaggi. E’ la speranza autoriale, quella poetica del cantastorie e quella meccanica del dispositivo, è la speranza narrativa, quella antica dell’aedo e della comunità attorno al fuoco. E' la libertà di inventare che esorcizza la circolarità di un destino infame.

Ma ce n’è anche un’altra di speranza, anche questa antica, e forse perduta, pasoliniana, e forse ancora possibile. Sta nell’affetto di un padre che non ha nulla e ha tutto per un figlio che non ha nulla ma ha un padre, sta nella non disparità, nella non divaricazione di materiale e culturale, ovvero nella non prevalenza del censo, e financo status, piccoloborghese. Amelio Guerrini (Gabriel Montesi, giusto), che fa il cameriere, si masturba en plein air e non gli manca niente perché ha niente, e Geremia Guerrini (Justin Korovkin), il figlio con i vestiti del padre, la cinta passata due volte e il cervello fino. Non c'è differenza tra ciò che si ha e ciò che si è (si sa) in Amelio e Geremia.

Nel loro amore, che non è solo vita ma sopravvivenza, storia e racconto coincidono, favola salvifica e parolaccia prosaica si corroborano: amor vincit omnia. O, per dirla con Pasolini, “ho nostalgia della gente povera e vera che si batteva per abbattere quel padrone senza diventare quel padrone”.

Su questa scia, ma non solo, i fratelli D'Innocenzo sono una delle cose più belle capitate al cinema italiano in anni recenti.