Ci sono film che impongono un atto di modestia da parte del critico. Film smisurati che ridicolizzano i tradizionali strumenti di analisi e gettano per aria - trovandolo inappropriato - il nostro bagaglio di conoscenze. Faust di Aleksandr Sokurov è uno di questi. Premessa dovuta a una recensione inadeguata.
Il titolo che chiude la tetralogia del potere (dopo Moloch, Taurus, Il sole) è un film-summa, la sintesi di un lavoro trentennale, un trattato poetico, teologico, filosofico, estetico, un'opera oltre il cinema. Un lavoro che non teme di utilizzare ogni risorsa espressiva disponibile - dall'uso delle luci alla misura del quadro, dalla prospettiva ai dialoghi, dalla tradizione pittorica a quella letteraria - per dare forma a una visione, una teoria di idee, un'interrogazione metafisica.
Faust ci schiaccia per terra e ci riporta su, in un doppio movimento discensionale/ascensionale. E' la storia della caduta più fetida - quella dell'angelo superbo - e della salità più dannosa, dell'uomo che vuole farsi Dio. Una reversio rispetto al percorso dei tre precedenti film, dove il potere che si presumeva divino veniva smascherato, riportato alla sua germinazione umana, molto umana.
Faust è l'albero della vita al contrario, dalle vette alle radici che scavano, giù e più a fondo, sottoterra, attaccate alla placenta di un'esistenza sgradevole, terragna. Fin dalla soggettiva iniziale, dal cielo al verminaio umano, in un obitorio, sul dettaglio di un pene, di un corpo che viene sventrato dall'ambizioso dottore e dal suo fido assistente. Cuore e budella, polmoni e interiora sono asportati, maneggiati, trattati come gingilli. Dal pene alla vagina, da cui un altro dottore estrae un uovo, il frutto della donna gallina, della specie ferina, degli uomini. Poco prima da un telescopio puntato sulla luna faceva capolino una scimmia, trasbordata attraverso secoli e spazi siderali, dal passato al futuro, dal presente al passato, da 2001 al Faust. La scimmia è l'imitazione di una perfezione umana impossibile da raggiungere, folle e scema come quella degli uomini (e degli angeli) che scimmiottano Dio (a cui nessuno ha più diritto di credere, come declama il protagonista)
Sokurov inchioda la bestia umana al suolo, ci mostra l'oscura forza di gravità delle sue ambizioni. Sempre le stesse: il potere di creare (i feti degli homuncolus in vitro), di sedurre, di controllare altri uomini. Il potere con la p minuscola, p di prostituzione, che è svendita dell'anima se il corpo è altare (e sull'altare e sulle statue votive, si consumano atti sessuali e oltraggi demoniaci). Mefistofele (Anton Adasiksky) è l'usuraio, perché dove c'è denaro c'è il diavolo. Un essere immondo, l'abominio di un Arcimboldo, uno strato repellente e tumorale, un vecchio sciancato con problemi di stomaco. Faust (Johannes Zeiler) è invece un uomo di mezza età, l'essere che non è più giovane e non è ancora vecchio, colto in un momento di passaggio, perché tutto passa e solo il tempo è immobile, sempre uguale a se stesso e al suo ciclo di nascite e morti. L'idea della morte pervade tutto: è l'odore mefitico di un film (e di un mondo) in stato di decomposizione, illuminato da una luce verde-giallognola.
Il Faust di Sokurov è sovraccarico di corpi, forme putride, muffe e flatolenze. E' un mondo chiuso dentro un formato piccolo piccolo - 1:37, sembra il 4/3 televisivo - un girone dantesco, un quadro di Bosch, l'incubo di Dürer. Faust è abbandono cieco alla materia, sprofondamento nelle sue cavità, messa in scena pantagruelica. Sokurov deforma ottiche e prospettive come in passato, ma in funzione diversa: se in Madre e figlio era la metamorfosi di uno sguardo che doveva re-imparare a guardare il mondo, qui è solo specchio di un mondo deformato. Anche la parola (la lingua è il tedesco, la lingua di Goethe e dei filosofi) è determinante: Sokurov ne abusa, l'innalza e la svilisce (trattando ogni genere di argomento), la rende autonoma, disincarnandola dai corpi, personaggio tra i personaggi. La parola sfinisce, è chiacchiera, cacofonia, silenzio interiore. Non c'è respiro per lo spettatore, ma asfissia, sopruso e un solo campo lungo.
Non si ricorda una visione altrettanto terrificante e potente dell'inferno terreno. Sokurov ci spinge agli estremi confini dell'essere, ci sbatte in faccia la finitudine, ci fa prossimi alla morte. Realizza un film coraggiosissimo e impervio, metafisico e furioso. Fa visione di secoli di riflessione sul Male, l'Anima, l'Assoluto.Opera d'arte, il Faust di Sokurov è un alieno in questo concorso. Come se chiedessero a Dante di gareggiare per lo Strega.
Faust è la firma in calce a una nuova pagina di storia del cinema, il sigillo di un patto che "dal" diavolo potrebbe salvarci: all'apice dello sprofondamento, mentre discendiamo l'abisso, finisce per segnalarci un Altrove. Al fondo della materia, la trascendenza diventa necessità. E, perso il diritto di credere in Dio, non ci resta che il dovere di farlo.