“Vuoi chiamare la tua mamma?” chiede la piccola Anna a Frida, 6 anni, porgendole la cornetta in quello che sembra un classico gioco infantile. La bambina prende il telefono, compone un numero e il telefono squilla… ma la verità è che nessuno risponderà e Frida sa che non è più un gioco, che la vita non è un gioco, da quando mamma e papà non ci sono più.

Estate 1993 di Carla Simón vive della commistione tra gioco infantile e dura e dolorosa realtà. Quei piccoli momenti insignificanti e intensissimi al tempo stesso, insieme ai tempi dilatati dell’infanzia, ne definiscono il carattere. Il primo lungometraggio della regista catalana non è un film che racconta semplicemente una storia d’infanzia, piuttosto la vive e ne adotta la sensibilità senza sentimentalismi o virtuosismi. Non stupisce allora sapere che quella di Estate 1993 è una storia autobiografica, e che i momenti che mette in scena, mai fini a se stessi, risultano così vividi perché figli del ricordo e della rielaborazione.

In quell’estate dei primi anni ‘90 Frida (alter ego di Simón; interpretata da Laia Artigas) perde la madre ad appena qualche anno di distanza dalla morte del padre. Viene affidata allo zio materno Esteve (David Verdaguer) e a sua moglie Marga (Bruna Cusí), che hanno già una bambina, la tenera Anna (Paula Robles), un paio d’anni più piccola della protagonista. Gli zii vivono in campagna e così Frida è costretta a lasciare la sua vita a Barcellona: un cambiamento drastico per la piccola. Adattarsi al nuovo ambiente e alla nuova famiglia non è facile: c’è la gelosia nei confronti di Anna (che tuttavia sembra essere la prima ad accogliere con affetto incondizionato la nuova arrivata), il sentirsi inadeguata, e non ultimo lo stigma legato alla malattia. Simón evita spiegazioni forzate e il male per cui sono morti i genitori di Frida non è mai esplicitato. Gradualmente però si intuisce che si tratta di complicanze dovute all’AIDS, e che si teme che anche la bambina possa aver contratto la malattia.

La storia dura e i tempi dilatati fanno sì che un pubblico infantile non sembri il più adeguato, nonostante Estate 1993 sia stato presentato all’interno della sezione Generation Kplus alla Berlinale 2018. L’opera prima di Simón è un film sui bambini, sull’elaborazione del lutto nell’infanzia, ma non è un film per bambini. Lontano anni luce dalle classiche storie deprimenti e moralizzanti di poveri orfanelli in balia di tutori crudeli o inadeguati, il film di Carla Simón si affida ad ambiguità più adulte, dove le interazioni principali del film sono rese da espressioni, sopracciglia impercettibilmente increspate, sguardi che scrutano all’interno e all’indietro, nel tentativo di trovare quell’affetto che consenta di rimuovere il velo che oscura il proprio futuro. La piccola Laia Artigas è intensa, il suo volto è perfetto per rendere tanto l’innocenza di una bambina smarrita quanto la gravità di chi in realtà è ben più grande dei suoi anni per quello che ha dovuto vivere.

Tra capricci sempre più testardi e reazioni sempre più smarrite degli zii, tre direttrici principali guidano l’attenzione dello spettatore e alimentano la tensione: lo stato di salute di Frida (diversi sono gli esami clinici a cui è sottoposta la bambina), la difficile conquista dell’amore incondizionato della zia Marga, inizialmente un po’dura con lei, e l’attesa di un momento di sfogo del dolore della protagonista.

Solo alla fine Frida comincerà a chiamare gli zii “mamma” e “papà” e a chiedere della morte della sua “mamma di prima”. Nelle ultime scene emerge una nuova tenerezza all’interno della famiglia. È solo nel finale, durante una scena di felicità e spensieratezza, che Frida si abbandona a un pianto liberatorio e doloroso, ed è lì che a tutti, zii compresi, risulta evidente il suo dolore e la paura per un futuro che vuol dire lasciar andare il passato.