C’è più dolore che gloria in questa opera magnifica, diversa da quelle a cui ci ha abituato Pedro Almodóvar, regista di Tutto su mia madre, Parla con lei e Volver.

Che pur raccontando un dramma, e con la potenza di cui è maestro, lo fa con stile sobrio, quasi asciutto. Con un linguaggio inizialmente didascalico ci introduce e poi scaraventa nella vita di Salvador (Antonio Banderas), che assomiglia a lui come una goccia d’acqua.

Il protagonista è un uomo stanco, che annaspa, a malapena galleggia. Ha un blocco creativo, la paura di non riuscire più a girare un film.

La storia è ambientata in tre periodi diversi: l’infanzia negli anni ‘60, l’età adulta negli anni ‘80 a Madrid dove Salvador si è formato durante il movimento di rinascita culturale madrilena, e infine nel presente, con Salvador che sta sprofondando nella depressione. Tanto che incomincia a drogarsi, pur sapendo di intraprendere un sentiero molto pericoloso.

Federico (Leonardo Sbaraglia) è un altro fantasma da affrontare, non è il ragazzo incontrato decenni fa, con cui ha avuto una relazione importante e che ha dovuto suo malgrado allontanare. Ora ha una famiglia, una compagna.

Nel dipingere questo mondo capovolto, di desideri perduti, rimpianti rimossi, emozioni soffocate, in cui si ritrova Salvador, con una madre più dura (prima Penelope Cruz poi Julieta Serrano) rispetto a quelle che hanno popolato le sue opere, Almodóvar abbandona il melodramma ma non le tinte vivaci, che appartengono al suo passato e a quello del suo alter ego.

E saranno i ricordi di bambino, adolescente innamorato della vita, a salvarlo, a dargli la forza di tornare a scrivere e soprattutto il desiderio di riprendere in mano il suo destino.

Un percorso terapeutico attraverso il processo creativo, un’opera maestra piena di citazioni, cinematografiche e personali. Con Banderas strepitoso e una galleria di prove attoriali sensazionali.