Crossing Over è cinema americano oggi. Post 11 settembre. Classico nella forma, liberal nella sostanza. Frammentato e insieme organico: uno spezzatino riconvertito a puzzle. Inarritu, per intenderci. Crash, Leoni per agnelli, Nella valle di Elah, gli esempi illustri di una autorialità mainstream che ricompone per Hollywood (e a Hollywood riceve il suo sigillo: i 3 Oscar a Crash, 2004) l'incommensurabile. L'evento al di là di ogni logica, bandiera, retorica. Il crollo delle torri non si vede mai. Ma non è più il fuoricampo che non si può mostrare, bensì la ratio del nuovo imperativo panottico. L'invisibile compresente, un fantasma dell'ubiquità visiva. Stavolta non si parla di Iraq, ma di green card, via crucis della cittadinanza. Eppure lo sguardo di Kramer è figlio dello stesso diktat culturale. Anzi, ne è la maniera. La stanchezza con la quale ripropone certe atmosfere, certi personaggi dolenti (Harrison Ford ne è il perno, logoro più che logorato). Il solito gioco di specchi, dell'adesione a tutti i punti di vista che equivale a non assumerne nessuno. La sostituzione del vecchio idealismo retorico – odioso ma almeno sincero - con la retorica dello stile. Immagini potenti, situazioni esemplari. E l'equivoco (l'inganno?) dell'ingegnosa coralità postmoderna. Nulla torna più, eppure tutto alla fine combacia.