La sezione Orizzonti, quasi in chiusura, cala il suo asso. Si tratta di Court, prima di Chaitanya Tamhane ambientata a Mumbai.
La vicenda, pur avendo come cuore il processo a un cantante folk accusato di aver istigato al suicidio un operaio, racconta in realtà tante vite quante sono le persone che si muovono all'interno del tribunale. Avvocati, giudici, testimoni, cancellieri sono seguiti sin nelle loro case e fotografati mentre compiono i loro piccoli e necessari gesti quotidiani. Li vediamo quindi prima in aula oppressi da un lavoro ripetitivo e schiacciante, e poi liberi cittadini di una metropoli specchio della società indiana. Ognuno di loro dopo tutto rappresenta una diversa classe sociale, dalla più umile alla più privilegiata, attori di una ronde corale che alla fine li accomuna tutti.
Lo scopo del regista non è del resto quello di arrivare alla formulazione della sentenza, piuttosto di sottolineare come il meccanismo del potere giudiziario renda tutti vittime. Gli ingranaggi inghiottiscono ogni individuo nella ruota della burocrazia, piaga mortale in India come in tanti paesi del resto del mondo Italia tristemente compresa. E dunque, se all'inizio si è portati a prendere le parti ora di uno ora di un altro personaggio, strada facendo ci si ritrova ad abbracciare ogni punto di vista in un ribaltamento continuo di possibili verità.
Tamhane cita apertamente Kieslowski e in special modo il cortometraggio Urzád/L'ufficio, dichiarata fonte di ispirazione. Del maestro polacco in effetti Court fa sua l'impossibilità di definire una verità assoluta, la capacità di ribaltare gli eventi, il distacco obiettivo dall'oggetto di indagine, l'abilità di costruire una narrazione perfetta, la sapienza nell'elaborare dialoghi sempre puntuali.
Insomma, il regista ha fatto centro al primo colpo e l'impressione è che possa aver messo una bella ipoteca su uno dei premi della sezione se non sul Leone del Futuro.