Mancava solo l'acqua. Unico elemento finora a non trovare spazio nella filmografia di Paul Greengrass, dopo la terra scippata di Sunday Bloody Sunday, i cieli violentati di United 93 e la polveriera mediorientale, letteralmente messa a fuoco in Green Zone.
Captain Phillips, con le sue navi alla deriva, le turbolenze oceaniche, il fragore spumoso delle onde e dei fucili a mitraglia, chiude il cerchio elementale. Nel cinema di Greengrass non si tratta solo di varianti geografiche, coordinate spaziali, ambienti, ma della materia di cui sono fatti i film. La mdp attraversa la chimica del mondo assorbendone il sapore: la fangosità della terra, l'asettico gelo dell'aria, il sabbioso pizzicore del deserto, l'umido salmastro del mare. Non importa localizzare, bensì restituire un punto di riferimento percettivo. Esperienza sensoriale, trascesa però da uno sguardo telescopico. La legge interna al suo cinema stabilisce sempre una dialettica tra un apprendistato fisico, epidermico, e una conclusione logica, figlia di una coscienza tecnica, razionale. Da una parte abbiamo uomini che vivono gettati nella mischia, rovistano nel fango, masticano sangue, annaspano in mare. Dall'altra tecnocrati e adepti al controllo, depositari del sapere e figure del comando. Terra, aria, fuoco, acqua. E il vortice del potere che mulina e rimescola, così tutto si confonde.
Richard Phillips è un capitano senza medaglie, un comandante senza plotone, l'eroe involontario di una guerra che non è la sua. Effetto collaterale della sperequazione, della fame per decreto e della ricchezza per esproprio. E più ancora gli altri, i pirati somali con i loro occhi scavati e i corpi ossuti, venuti fuori da qualche melmoso pozzo di terra per avere anche loro una fetta di speranza. Pezzi di carne del Capitale Globale. Lui e loro, uomini sbagliati nel posto, al momento, sbagliato. Come i passeggeri dello United 93, persone reali, testimoni che è tutto vero. Eppure è cinema, alla potenza. Greengrass racconta che cosa succede quando due mondi così, due mondi che di norma non dovrebbero incrociarsi, fanno un frontale. Captain Phillips è un tragitto tra l'innesco e lo scoppio, la storia una miccia, lo spettatore seduto sopra una bomba a orologeria.
Il procedimento sempre lo stesso: narrazione multipolare, con le diverse linee d'azione – la nave mercantile, la marina americana, l'imbarcazione dei pirati - che convergono verso il centro del dramma. L'azione stessa viene spezzettata, sezionata, frantumata nel montaggio, internamente mossa, braccata dalla macchina a mano. Lo spezzatino è servito, la frenesia è movimento, il gesto disperato di un tempo deperibile.
Captain Phillips è già il terzo survival movie che Hollywood recapita in pochi mesi– con All is Lost di Chandor e Gravity di Cuaron – e qualcosa vorrà pur dire. Ma è soprattutto un grande film, il raccordo in assonanza dello shock percettivo e informativo di anni sciagurati. L'indice puntato sul caos creato ad arte. Perciò Greengrass non si limita a focalizzare l'attenzione sul “suo” capitano – cui Tom Hanks fornisce un'interpretazione di straordinaria intensità, con un climax terribile - ma dà eguale risalto (e dignità) alla controparte somala. Dalla lunga sequenza dell'ingaggio alle brevi ma incisive scene all'interno di imbarcazioni sudice e rattoppate, il film ci introduce all'interno di un mondo dove i pirati sono solo uomini, il volto un patire, la violenza una necessità, miseria il nascere. Nulla di nuovo, ma inedita da quelle parti è la pietà.
Ecco quattro scalcagnati triturati in un gioco più grande di loro. Non sono fondamentalisti, non odiano gli yankee, vorrebbero soldi, sbarcare in America con una macchina nuova di zecca ("It's just business”, dirà il loro leader a Richard Phillips). Resta lo scacco, la consapevolezza che i guasti di questo mondo non sono addebitabili a un gruppo di ragazzini impauriti che scorazzano su una piccola barca in mezzo al mare. Golia è altrove. Scende dal cielo con una corazzata di angeli neri, i Navy Seals venuti a riportare il mondo dov'era, ingiusto com'era.
Ecco che questo spettacolo immersivo e pulsante, specchio di un mondo concitato, scomposto, conteso da potenze in lotta per imporre le proprie ragioni, rivela l'inganno. Il gioco è truccato, l'arbitro nascosto nella torre di controllo, alla consolle dei radar, dei grafici, delle linee di comunicazione. Rimonta tutto secondo logica, consolidati assetti, gerarchie. Ecco l'antidoto all'universo anomico delle immagini.
Il mondo è cinema, il demiurgo seduto in cabina di regia.