La cucina di un ristorante (tanti talent show ce lo hanno insegnato) non è esattamente il posto più tranquillo del mondo: ne sa qualcosa Andy (Graham), chef di un prestigioso ristorante appena declassato da cinque a tre stelle in seguito al controllo di un solerte ufficiale sanitario.

L’inconveniente è la classica pioggia sul bagnato, data la situazione interna al limite della tensione: rancori personali all’interno della brigata, clienti difficili quando non impossibili, Andy in grossa difficoltà a gestire il tutto a causa dei propri problemi con figlio e moglie, che lo hanno portato ad abusare di alcool e cocaina. C’è anche un ospite inatteso: il famosissimo chef Alistair Skye, per il quale un tempo Andy lavorava. Tutto quello che potrebbe andare male… andrà peggio.

Philip Barantini, attore quarantaduenne di Liverpool (visto recentemente in Chernobyl), decide di passare alla regia e lo fa decisamente in grande: un film come Boiling Point, audacemente girato in un unico piano sequenza, non passa certo inosservato. Una tecnica di ripresa che, certamente, è diventata più accessibile con l’avvento del digitale e delle schede di memoria, rispetto ai tempi di De Palma. Arca russa di Sokurov è stato lo spartiacque: il resto lo ha fatto l’evoluzione tecnica del linguaggio televisivo, che ha sdoganato e omologato una tecnica di per sé sperimentale (viene in mente Fukunaga in True Detective).

Ma girare tutto senza stacchi resta un pezzo di abilità non comune, in cui tutto tra troupe e cast deve funzionare a meraviglia (a differenza della brigata raffigurata nello script di Barantini e James Cummings): tecnicamente, dunque, tanto di cappello. La situazione disperata all’interno del ristorante viene efficacemente resa dalla tecnica di ripresa e dalla fisicità degli attori, obbligati a una frenesia fisica e verbale che coinvolge fin da subito: Stephen Graham e Vinette Robinson regalano personaggi avvincenti e drammaturgicamente riusciti, rispettivamente portatori (in)sani di irresponsabilità e frustrazione.

Per ampliare il cortometraggio di venti minuti che ha ispirato il film (sempre diretto da Barantini), si è deciso di ampliare le storylines dei personaggi e di conseguenza la complessità del piano sequenza, che abbandona Graham per seguire camerieri e clienti in un’esplosione di coralità e microtrame, fatalmente condizionate dalla messa in scena: così se la storia della coppia di fidanzati, con lei allergica alle noci, è hitchcockianamente seminata per esplodere a orologeria e farsi snodo cruciale, altre vengono abilmente dipinte per poi finire abbandonate per strada, ed è un peccato (si pensi al capofamiglia razzista del tavolo 7, ai sedicenti web influencers adulati da una caposala incapace di legare coi colleghi, al giovane addetto al reparto pasticceria che si infligge ferite al braccio).

Purtroppo, a lungo andare, l’one shot impedisce al racconto di respirare e approfondire i comprimari, cannibalizzandoli con l’incessante unità di luogo, tempo e azione. A farne principalmente le spese è un finale frettoloso e tirato via, che lascia l’amaro in bocca: manca un epilogo forte, in grado di tirare le somme e dare più forza al tutto.

Acclamato ai vari festival europei in virtù della sua accuratezza formale, Boiling Point persegue per sua natura la forma a scapito della sostanza, a tratti sfiorando la grazia che è propria dei prodotti fatti bene e col cuore, abbandonando lo spettatore al culmine di un giro di giostra tanto emozionante quanto breve.