Posto che l’operazione produttiva ci sembra di per sé interessante, al di là dei suoi meriti o meno, Bang Bang Baby costituisce l’occasione per riflettere su due questioni.

La prima è sull’idea di italianità che veicola una serie del genere e vuole dialogare con una platea internazionale. Parliamo di un gangster movie, che da La piovra a Gomorra ci rende riconoscibili altrove, incrociato con il coming of age, filone universale. Con questa formula si cerca di tradurre e rinfrescare un contenuto che all’estero ritengono molto affine alla nostra identità nazionale (l’intreccio tra famiglia e criminalità), attraverso una forma che però ricorre alla nostalgia di un tempo perduto e sempre rievocato per mezzo della sua estetica.

La storia, ambientata nel 1986, è quella della sedicenne Alice che, dall’omicidio del padre avvenuto dieci anni prima, vive da sola con la madre operaia in una cittadina del nord. All’improvviso scopre che il babbo non è morto: di fronte all’ipotesi di una nuova felicità, la sua vita cambia e si tuffa nel mondo pericoloso della famiglia paterna, il clan calabrese dei Barone, che a Milano gestisce il traffico dell’eroina e sta per mettere le mani su un grosso appalto a Malpensa. Una volta dentro, non potrà uscirne.

Detto così è piuttosto tradizionale, in cui i maschi sono bugiardi o idioti (su tutti lo svalvolato Antonio Gerardi, cattivo che occhieggia allo Zingaro di Lo chiamavano Jeeg Robot) e le donne dominano la scena (la protagonista Arianna Becheroni ma soprattutto la feroce nonna della gigantesca Dora Romano), ma che pone la seconda questione di cui prima: la prevalenza della forma.

Credits: ©️ Prime Video & Amazon Studios, photo by Andrea Pirrello

A partire dal titolo che convoca un classico pop degli anni Sessanta (periodo che per i personaggi della serie è già antiquariato), Bang Bang Baby tratta un catalogo di feticci e memorabilia che sposta il genere verso la sua rielaborazione, scherza con i santi – anzi, la Santa, la ‘ndrangheta – per poter giocare con i fanti del suo freak show, usa uno standard come il racconto di (de)formazione per ragionare sull’urbanizzazione della malavita rurale, sull’impatto dell’Italia da bere sui meschini della periferia, su come l’emancipazione femminile può avvenire all’altezza della crudeltà.

Creata da Andrea Di Stefano, ispirata al libro L’intoccabile di Marisa Merico, diretta da Michele Alhaique (anche supervisore artistico), Margherita Ferri e Giuseppe Bonito, la serie trova la misura nell’eccesso: dilaga con un pantheon musicale (Loredana Bertè, Rettore, Ivan Graziani, Al Bano e Romina, Talking Heads, Blondie, Wham! e soprattutto l'epifania di un'avatar di Ornella Vanoni che canta Senza di te nel night), ricostruisce la pacchianeria luccicante delle tv private, usa vestiti e acconciature in termini iperrealisti, cita l’audiovisivo fruito ed esperito (vasto e confuso orizzonte: Martin Scorsese e Fernando Di Leo, David Cronenberg e Claude Lelouch, Nicolas Winding Refn e Roger Vadim).

In questo senso è intrigante e perfino spiazzante quando la storia ricalca le marche tipiche di una sitcom americana o quelle di un anime giapponese, parafrasa le evoluzioni dei personaggi attraverso le trasformazioni di Hulk o le avventure delle Charlie’s Angels, costeggia l’onirico toccando sia l’horror che il fantasy.

Lo spirito è postmoderno, esplode lo sguardo pop, ma nell’ambire allo statuto mitopoietico di cult, attraverso il dispendio di un campionario pulp, non trova il coraggio degradante del kitsch e si resta un po’ sulla superficie di un progetto comunque vivace.