Esordio alla regia di Andreas Fontana, Azor è disponibile sulla piattaforma MUBI dal 3 dicembre: tagliamo corto, è uno dei migliori film dell’anno.

Sight & Sound ha detto bene, “immaginate se Graham Greene avesse riscritto Apocalypse Now”, ma nei cento minuti deliziosamente intessuti, pericolosamente intrecciati, delicatamente manipolati dal regista e sceneggiatore ginevrino c’è molto di più, c’è il fascino correo della borghesia, il pugno in una carezza serica, l’avidità seduttiva, le buone maniere del cappio alla gola.

C’è stile, un profluvio di stile, ma misurato, contenuto, persino distillato: lo vuole l’occasione, lo vuole la gravità della storia rispetto all’elusività e ellitticità del racconto.

Il mistero e il marchingegno, le storie e la Storia, la carta (moneta) e il territorio, sicché il passo a due, il triangolo incompleto troverà moltiplicatori, denari, e moltiplicazione, la tragedia: la junta argentina, scorciata nel 1980.

Che dire, torna in mente Buñuel, sovviene Costa-Gavras, s’intravvede Bellocchio, s’intuisce Il terzo uomo, ma Fontana zampilla originalità, ha la capacità acquolinica del pilot, il massimalismo dell’autore, la sottrazione del (narratore) sadico, sicché Azor è anche il suo manchevole anagramma, è una rasoiata che squarcia buñueliamente il nostro occhio, affinché si rifaccia vergine. Che bello questo cinema non sicuritario, non rassicurante, né assicurato, che bello che ci chieda tanto, che tanto spartisca l’autorialità, che ci voglia conniv(ed)enti.

Dunque il banchiere svizzero, terza generazione di banchieri, Yvan (Fabrizio Rongione) e la moglie Ines (Stéphanie Cléau). Pausa. La Cléau l’avevamo già vista ne La chambre bleue, adattamento simenoniano diretto e interpretato da Mathieu Amalric nel 2014: ne eravamo rimasti assai colpiti, e qui di più, ha eleganza, bellezza, assertività e alterigia, e non solo per esigenze di copione, fuori dal comune. Mathieu e Stéphanie stanno insieme da una dozzina d’anni: Mathieu è un uomo fortunato.

Anche Azor lo è, la chimica tra Yvan e Ines è formidabile, ha qualcosa di veridittivo: lasciano Ginevra alla volta di Buenos Aires per scoprire, tra tenute, lounge vip e bordopiscina, che fine abbai fatto il partner in affari del primo, Keys, dato per brillante, sprezzante, infido e chissà che altro ancora. Ma tra i due, diversamente banchieri e ancor più diversamente fantasmi, c’è anche competizione, homo homini lupus che nella junta troverà appunto iperbole d’archivio: “la paura ti rende mediocre”, sprona Yvan Ines, ed ecco palesarsi nella rarefazione bancaria, nelle brume del potere il terzo fantasma, Lady Macbeth.

Multilingue, anzi, poliglotta, lascivo per norma, coatto per esito, il percorso (anti)eroico di Yvan è tenebra senza cuore, Kurtz con divers(ificat)o portafogli, discesa al profitto e delitto capitale: tutto in pochi giorni, molto in pensieri parole opere e (o)missioni, affinché la suspense trovi voltaggio morale, il potere reificazione, il privilegio eternità.

C’è autentica paura, cui Fontana e il co-sceneggiatore Mariano Llinas, nonché il direttore della fotografia Gabriel Sandru, sanno dare il trattamento più consono: il contingentamento. Che Azor abbia trovato la prima epifania al Panorama della Berlinale è un problema di Berlino, Cannes e Venezia: meditate, gente, meditate.