Subito dopo aver partorito, neanche il tempo della prima poppata, Ayka fugge dalla finestra dell’ospedale. Mosca è sotto la morsa del gelo di una nevicata violenta. Per la donna, senza soldi, inizia la disperata ricerca di un lavoro, mentre al telefono c’è chi le ricorda di un debito da saldare e il corpo (le perdite di sangue, l’accumularsi di latte che condurrà presto a una mastite) le ricorda che, nonostante tutto, è diventata madre.

Dieci anni dopo la vittoria in Un Certain Regard con Tulpan, il kazako Sergey Dvortzevoy torna sulla Croisette, stavolta in concorso, con un titolo già di per sé abbastanza programmatico.

È il pedinamento insistito della donna protagonista (ancora Samal Yeslyamova, che potrebbe entrare anche nel novero delle pretendenti al premio per la migliore interpretazione femminile), seguita in questo peregrinaggio senza sosta, ferita nella carne e nella dignità, nel gelo di un paese che nel migliore dei casi continua a disinteressarsi di lei. Dopo averla violentata.

Dvortzevoy sembra a sua volta volersi “accanire” su di lei, senza mollarla mai di un centimetro (non esiste il fuoricampo nel film) ma, ed è questa forse la scelta più interessante dell’intera operazione, senza davvero mai riuscire ad “inquadrarla” sul serio.

Ayka – immigrata kirghisa con il permesso di lavoro scaduto – riempie lo spazio dell’inquadratura ma sempre in maniera irregolare, di taglio, di spalle, in angoli sempre poco illuminati, vittima di vessazioni e umiliazioni continue, troverà solamente in una connazionale donna delle pulizie in uno studio veterinario l’unica, vera figura capace di interessarsi a lei.

 

Luogo, quest’ultimo, dove a Dvortzevoy interessa calcare un poco la mano con la metafora, contrapponendo l’attenzione e la cura riservata ai vari animali in transito al totale disinteresse nei confronti dell’essere umano bisognoso.

Ma è tutto sommato una forzatura perdonabile, laddove al regista preme più di ogni cosa cercare di catturare, finalmente, l’oggetto della sua unica attenzione.

Saranno cinque giorni di discesa agli inferi, di sopravvivenza estrema, con le unghie e con i denti, per Ayka. Che alla fine, per provare a uscire da questa spirale, è disposta ad un atto ancor più ignobile di quello che ha dato inizio al film. E sarà proprio allora, finalmente, che Dvortzevoy riuscirà a “catturarla”, fermarla, in quel momento in cui la componente umana ritrova il suo aspetto più primordiale. E unico.