Un villaggio, Ditrău, in Transilvania, dove capitalismo e razzismo mordono, alimentando l’eterna guerra dei poveri. È R.M.N. (da noi Animali selvatici), è la risonanza magnetica che Cristian Mungiu, aristocrazia di Cannes dopo la Palma d’Oro nel 2007 a 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni, porta in Concorso a Cannes 75, sottoponendovi la Romania qui e ora.

Lo fa tallonando Matthias (Marin Grigore), che molla il lavoro in un mattatoio in Germania, e torna nella sua cittadina, dove i problemi, privati e pubblici, si affastellano: il padre Otto ha un cancro al cervello, con la moglie Ana (Macrina Bârlădeanu) s’è lasciato, il figlio Rudi è angosciato e, poi, un impiego non lo ha, e nel villaggio monta la protesta, xenofoba, giacché per mera convenienza, e facilitazioni europee, il panificio locale ha preso manodopera singalese.

Che fare? Be’, il regista di Un padre, una figlia (2016) sa il fatto suo: indaga, scruta, tra miserie private e pubbliche nefandezze, per capire il male di vivere che incontriamo, lì come altrove.

Lo fa con partitura corale, Matthias e i congiunti, la (ex) amante ungherese Csilla (Judith State, brava e bella) impiegata al panificio, il prete, il sindaco, il medico, la proprietaria della fabbrica, i singalesi, i villici e compagnia berciante, tutti con una ragione, anzi, tutti con un torto. E i torti bisogni classificare: chi peggio, l’imprenditore che sfrutta, prendendo operai stranieri al salario minimo, o il cliente che non compra, perché il pane è impastato da mani straniere?

Mali diversi, nessun gaudio: gli orsi non sono le uniche bestie, la gente s’impicca, la neve copiosa ma non candida, il ritorno al passato e il futuro sbarrato, l’ensemble cacofonico, e, ancora, che fare?

L’intenzione è chiara, l’istanza meno: dall’avidità capitalistica al razzismo, l’obiettivo è individuato, ma non perseguito con adeguata e approfondita analisi, e strano per Mungiu, che senza essere programmatico né a tesi ha saputo a più riprese – si pensi dopo la Palma a Oltre le colline (2012) – decrittare lucidamente le disforie patrie.

Qui no, o comunque meno: si cincischia, si spaccia per ambiguità un’indecisione di fondo, sicché il precipitato ideologico – razzismo e capitale sono due facce della stessa sperequazione – è desunto un tanto al chilo, con qualche approssimazione e facilitazione di troppo, una dialettica fin troppo nostrana.

Ne fa le spese lo stesso Matthias, un po’ Virgilio e un po’ Carneade, che le scarpe le ha grosse, chissà il cervello. E però intenerisce, sul serio, quando all’amante chiede la mano: non per sposarla, ma di tenergliela e basta, perché le parole – degli uni e degli altri – non hanno ormai alcun senso, alcuna residua verità. Come la pace.

Da La morte del signor Lazarescu (2005) di Cristi Puiu a Police, Adjective (2009) di Corneliu Porumboiu fino a Bacalaureat (Un padre, una figlia) dello stesso Mungiu, la (non più) nouvelle vague romena si è ripetutamente confrontata con la corruzione della società: Animali selvatici ha l’ambizione del salto di specie, della destinazione morale, alla voce corruttela, ma fa il passo più lungo della gamba. Irresoluto, se non irrisolto.