L’asfalto di New York al cinema è sempre vivo, pulsante. Può essere infernale, divorato dal sole, teatro di amore e violenza, scenario di inseguimenti da antologia. La strada è un elemento fondativo della cultura americana, come insegna anche Martin Scorsese con Gangs of New York. Non è un caso che James Baldwin abbia intitolato uno dei suoi romanzi più famosi If Beale Street Could Talk, da noi diventato Se la strada potesse parlare. Segue la scia Jeremy Elkin con il suo documentario All the Streets Are Silent. Tra gli anni Ottanta e Novanta racconta l’evolversi dell’hip hop nella Grande Mela. Si parte dal Bronx per arrivare nei club, concentrandosi sulla musica, sulle vibrazioni.

Le canzoni sono un punto d’incontro, un modo per unire il centro e la periferia, i borghesi e gli alternativi. Il regista punta su questa coesione, sull’armonia. L’hip hop nasce dalla contaminazione, dalla frattura. È figlio degli anni Settanta, mescola il rap, il talento dei dj col mixer, la break dance, i graffiti, l’andare sullo skateboard. Eppure, con anime diverse, avvicina. La vera sorpresa è vedere come ambienti “alle antilopi” (per citare Totò) possano coesistere, avere un equilibrio in contesti dove guardare al futuro può essere un’impresa impossibile.

Ricordiamo qualche cult legato a questo filone: Beat Street del 1984 di Stan Lathan e Wild Style del 1983 di Charlie Ahearn. Entrambi i film affrontano l’evasione dal ghetto, la volontà di evolversi attraverso il ritmo. Questo ultimo aspetto è il cuore di All the Streets Are Silent. L’alternarsi degli artisti in consolle delinea l’andare del tempo. Nello stesso periodo Spike Lee girava Fa’ la cosa giusta, si infiammava il conflitto razziale anche sullo schermo con una nuova black wave. Elkin si sofferma sul punto di congiunzione tra ieri e oggi. Andando alle origini dell’hip hop, si delinea il ritratto di una società poliedrica, classista, in cui si riesce a raggiungere l’uguaglianza solo attraverso la musica a tutto volume.

I guerrieri della notte hanno cambiato volto. Non sono più le gang di Walter Hill del 1979. Al calar del sole si sfidano sulla pista da ballo, come se i duelli western ormai si fossero spostati al chiuso, nei locali notturni. È un mondo in fermento, sospeso tra chi cerca un futuro e chi vuole dimenticare la propria disperazione. Mentre i brani non si fermano, e i silenziosi vicoli di New York fanno da cornice. La sequenza iniziale è una sinfonia immersa nell’oscurità. I grattacieli, le case disegnate di graffiti, prima dell’esplosione dei colori, dell’hip hop.

Il documentario va visto a tutto volume, e ha anche uno spirito didattico. Il sottotitolo originale recita: The Convergence of Hip Hop and Skateboarding (1987 – 1997). A essere preso in considerazione è un decennio che avrebbe dato vita a una delle “unioni” più fortunate di sempre. Ma come è avvenuta questa convergenza? Elkin osserva da lontano, lascia parlare chi davvero ha vissuto quel periodo. Si accosta anche al cinema, dando il microfono all’attrice Rosario Dawson. Il focus è su chi ce l’ha fatta, su chi ha reso quell’universo il suo lavoro, su chi lo ricorda con nostalgia, e su chi invece è rimasto indietro. All the Streets Are Silent ha un sapore agrodolce, a tratti malinconico, e si concentra su un momento storico memorabile, cercando con disincanto la sua verità.