"Non ho voluto raccontare una cronaca della Cecenia: in Alexandra non si dice mai che ci si trova a Grozny. Anche il cinema, piccola arte rispetto alla letteratura, è in grado di parlare di guerra senza mostrarla. Chi fa film bellici fa film romantici, ma la guerra, qualunque guerra, non ha nulla di affascinante": Aleksandr Sokurov sulla sua nuova opera, Aleksandra. Censurato sotto il regime sovietico, il regista russo, classe 1951, ha conquistato fama internazionale grazie al plauso dei cinephiles e dei festival occidentali (fondamentale il contributo produttivo del nostro Marco Müller), con titoli quali Madre e figlio (1997), la serie delle Elegie inaugurata nel 1985, Arca Russa (2002), e la eterodossa trilogia sul potere di Moloch (1999, su Hitler), Taurus (2001, su Lenin), Il sole (2005, su Hirohito), che non stigmatizza l'orrore del dittatore, bensì l'eccezionalità dell'uomo, fregandosene del politically correct in favore di quell'approccio irriducibilmente umano e umanista che costituisce il leitmotiv della sua filmografia. Presentato in concorso a Cannes, premiato con il Robert Bresson alla Mostra di Venezia, Alexandra prosegue su questa via, muovendosi fra i poli del dato storico e della rappresentazione artistica attraverso lo sguardo di una donna, una nonna, che incarna in una prospettiva simbolica il rapporto fra guerra e pace, ovvero fra vita e morte. Con la morte, Sokurov è stato a diretto contatto durante le riprese: 28 giorni in condizioni estreme, fra la zona di Grozny e quella di Khankala, occupata dalle truppe russe. E lo schermo lo riflette, fedelmente, nel viaggio alla postazione militare cecena di una nonna russa, desiderosa di incontrare il nipote militare che non vede da anni. A interpretarla la splendida ottuagenaria Galina Vishnevskaya, cantante lirica e vedova del violoncellista Rostropovich (coppia già protagonista di una commossa Elegia): "E' la nonna di tutti i soldati al fronte, e la madre di tutte le vedove cecene, Aleksandra doveva rappresentare la luce della ragione, l'intelligenza che sovrasta il clangore delle armi", ha dichiarato Sokurov. C'è da sottoscrivere, in toto. Il corpo di Galina Vishnevskaya è il corpo di Alexandra, ma soprattutto di Alexandra: è lei l'immagine-movimento e l'immagine-tempo del film. Immagine di una convivenza possibile nel nome della comune umanità, tempo (dilatato) di saggezza sottratto al parossismo bellico: Alexandra sa farsi, sul campo, sintesi pacifica tra due violenze uguali e contrarie, russa e cecena. E con fermezza, acutezza e semplicità ne dimostra l'inconfutabile nonsense, l'estraneità alla natura stessa dell'uomo. Come? Con ineludibile presenza scenica, lei, e lo straordinario "fuoricampo interno" in cui Sokurov occulta le armi. In breve, la guerra c'è ma non si vede, affinché l'action possa cedere alla contemplazione, il guerrilla-style alla prosa elegiaca di Alexandra, il vulnus al pharmakon, lo status ondivago - e talvolta infido - del docu-fiction al Cinema, piccola ma pur sempre arte. Non è un film facile da seguire (92 lunghi minuti), ma ancor più ostiche, leggi terribili, sono le ragioni di questa "insostenibilità": ci manca forse la guerra?