L’opera seconda di Kira Kovalenko, vincitrice di Un Certain Regard al 74. Festival di Cannes, è la storia di una giovane ragazza in bilico tra un contesto familiare iperprotettivo e l’impossibilità di riuscire a fuggire dai propri cari.

Nella vecchia città mineraria di Mizur, situata a nord dell’Ossezia, tra fatiscenti e incolori prefabbricati situati lungo una vallata incisa dal fiume, insieme al fratello Dakko e al padre, vive la giovane Ada, fulcro del titolo omonimo diretto dalla regista russa e distribuito da Movies Inspired.

Le prime immagini del volto ne riescono già ad anticipare la condizione: viso parzialmente coperto da una felpa, non certo poco utilizzata, che lascia intravedere limpidi occhi intenti a perlustrare ciò che le si avvicenda davanti, come se dovesse evitare spiacevoli rimproveri. Una sensazione visiva che effettivamente corrisponde a realtà. Ada, infatti, convive con la dispotica presenza di un genitore opprimente, severo ed ossessivo che, avvalendosi del proprio ruolo, sprigiona un’iperprotettività tossica, ingombrante e pericolosa.

Dal farle buttare il profumo dentro il lavandino, goccia dopo goccia, al nasconderle i documenti per non farla scappare, l'uomo esercita un meccanismo di sopraffazione psicologica logorante ai danni dell’identità della figlia, impedendole ogni tipo di evasione. E al soffocante ambiente casalingo, si aggiunge altra mascolinità ossessiva ed immatura: il fratello minore, mentalmente disabile, bisognoso di attenzioni più materne che fraterne, e Tamik, coetaneo innamorato di lei, che giornalmente (e puerilmente) la perseguita eludendo con frasi spiritose ogni tipo di rifiuto.

Imprigionata in un futuro senza prospettive e in una quotidianità avvilente, Ada cerca di appellarsi alla sua unica speranza di salvezza incarnata dal fratello maggiore Akim, ormai trasferitosi nella vicina Rostov per lavoro. Il ragazzo sembra intenzionato a portarla via da quel luogo o quantomeno ricoverarla perché ancora sofferente per una ferita inflittale da bambina durante un evento, mai specificato (probabilmente l’assedio alla scuola Beslan avvenuto nel 2004), e mai ben curata per l’atavica paura del padre di aprirla di nuovo”.

Ada
Ada
Ada
Ada

In bilico tra dolore fisico e tormento psicologico, Ada tenterà il desiderato processo di emancipazione, percependo la necessità riappropriarsi di sé stessa, lasciando trapelare la sedimentata impossibilità di deporre completamente la dipendenza dai suoi, ormai compartecipanti di una dannosa simbiosi emotiva.

Quello che cerca di intraprendere Ada è un vagabondaggio sconnesso, frenetico tra luoghi isolati e polverosi ed interni poco illuminati, resi claustrofobici dalla fisicità morbosa di abbracci e rincorse asfissianti, ritmicamente raffigurati tramite una scelta registica ben precisa.

Il film, il cui titolo internazionale Unclenching the Fists richiama il mai troppo citato I pugni in tasca di Bellocchio (1965), è difatti un chiaro e voluto riferimento agli stilemi più noti del Neorealismo italiano da cui eredita, seppur con qualche difficoltà, la drammaturgia lineare e l’intento recitativo razionale (la quasi totalità degli attori sono non professionisti).

Se Ada riuscirà ad abbandonare definitivamente quello status indotto, eppure inevitabilmente familiare, non è chiaro; ma in quello zaino lasciato scivolare dalle dita nella corsa in moto per fuggire, il miraggio di aver finalmente afferrato la libertà.