Delle due l'una: o il cinema riesce a fare la differenza rispetto a un qualunque docu-reality televisivo che tratti dello stesso tema, oppure meglio volgersi altrove cambiando obiettivo. Perché il tempo dei film che arrivano prima, che rompono un tabù, che sdoganano, sono belli che finiti, superati dai Real Time e dai loro programmi impudici e ad effetto.

Non basta più affrontare un argomento à la page come quello del cambio di sesso se poi non ho né fornisco gli strumenti per comprenderne meglio la portata. Si esce dunque con rammarico dalla visione di 3 Generations di Gaby Dellal, perché al di là di un compitino politicamente corretto non si va. Anche lo spettatore meno smaliziato non faticherà a trovare in mezzo a questa incrollabile certezza morale nei propri convincimenti il primo evidente problema di tutta l'operazione, troppo dichiaratamente sbilanciata sul "sì, facciamolo" per poter essere anche appassionante e credibile.

L'equivoco probabilmente è a monte. Nasce dalla convinzione che un tema spinoso come quella dell'identità cada necessariamente sotto l'ombrello ideologico del mondo LGBT.  Eppure sentirsi estranei nel proprio corpo è un rompicapo che tocca questioni delicatissime dal punto di vista biologico, sociologico, medico e filosofico. Tutte, va detto, ignorate dal film. Che preferisce piuttosto costruirsi come un coming-of-age dalla struttura polemica, fortemente connotato dal punto di vista ambientale. Ray, la sedicenne che si sente "un" sedicenne e che vorrebbe perciò sottoporsi al processo di transizione fisica, proviene da una famiglia modernissima, formata da una madre bohemienne e da una nonna che convive con un'altra donna già da parecchi anni. Finendo indirettamente per suggerire che il rebus identitario di Ray è figlio di un milieu particolare, quando sarebbe stato molto più interessante affrontare la questione più laicamente, all'interno ad esempio di un nucleo familiare neutro (e neutrale).

Lo spazio sessualmente aperto non è innocuo nemmeno per lo sviluppo del racconto, finendo per innescare tutta una serie di dinamiche tipo e di stereotipi caratteriali. Non ci piace, per dire, che Ramona/Ray debba forzatamente identificarsi con l'universo maschile nel modo più smaccato possibile, mescolandosi cioè tra gli skaters dei parchi urbani, facendo a pugni e sorridendo compiaciuta ai commenti volgarotti dei pari età sull'universo femminile. Ci piace meno che una lesbo nonna debba per forza essere un personaggio esplosivo, con Susan Sarandon che senza farselo ripetere due volte gigioneggia dalla prima all'ultima scena. Anche perché per la somma zero della parti è la figura della madre a dover fare da contraltare, assumendosi tutte le difficoltà, le rogne e le lacerazioni del caso (un ruolo che abbiamo visto fare a Naomi Watts troppe volte).

Sappiamo poi che Elle Fanning è un'ottima interprete, ma anche lei rischia di finire risucchiata dal con-testo, dovendosi preoccupare più delle paturnie della madre, delle domande aperte su un ignoto padre e degli scivoloni linguistici della nonna, cui sa opporre solo un fiero e - sempre a proposito di cliché - riconoscibilissimo rifiuto, un puntiglio da ribelle in un'età che lo prevede. E il cambio di sesso? Resta quasi sullo sfondo, come un pretesto per innescare un racconto di (de)formazione pigro e sfilacciato, leggero senza essere mai sottile, contrito più che profondo. Con delle buone musiche accanto alle note stonate di cui sopra E qualche momento sopra le righe. Però far rumore è facile. Più difficile è farsi sentire.